Guardare al passato con occhi diversi, ovvero l’importanza della memoria per il cittadino del futuro

Il seguente elaborato vuole testimoniare la partecipazione ad un’esperienza che, per un cittadino, è da ritenersi fondamentale. Contribuire a preservare il concetto di “cittadinanza” significa prendere parte ad iniziative che possano rivelarsi feconde all’accrescimento della propria consapevolezza. Il secolo scorso, martoriato da sanguinosissimi avvenimenti, non è un frammento di storia da obliare, ma da studiare, approfondire e comprendere per far sì che il cittadino del futuro guardi al passato come ad uno spunto dal quale partire. Partire per dove? Lo deciderà lui stesso. Perché sarà libero di poter partire e libero di poter decidere la propria meta. Ricordando sempre che la libertà, ovvero l’essenza stessa della cittadinanza, non va soltanto pretesa o desiderata; va conquistata e difesa. Ecco perché è fondamentale ricordare tutte quelle persone che, sacrificando la propria vita, hanno permesso al cittadino odierno di scegliere, e non solo di scegliere, ma di poter prendere la propria scelta in modo libero e consapevole.

Da Salisburgo a Linz (schiene sui sedili, guance contro i vetri)

Quest’anno ho avuto la fortuna – ed il privilegio – di partecipare al “Viaggio della Memoria”, tenutosi in Austria, organizzato dall’Aned, l’Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti. Oltre al sottoscritto erano presenti anche alcuni consiglieri del Comune di Imola, un gruppo di studenti del circondario imolese ed una delegazione di docenti, anche universitari, tra cui Marco Orazi, storico del Cidra, il Centro imolese di documentazione sulla resistenza antifascista), che ho avuto il grande piacere di conoscere in modo squisitamente approfondito.

La prima tappa del viaggio è stata Salisburgo, a metà strada tra il confine austriaco e Wels, nostra meta. Nonostante le condizioni meteorologiche a dir poco avverse, la città non ci ha nascosto il suo fascino, e la vista della fortezza di Hohensalzburg a presidiare il centro abitato si è rivelata, come potei già constatare in passato, una meravigliosa cornice a connubiare le bellezze della città e della natura circostante.

Una volta lasciata Salisburgo, abbiamo proseguito il nostro viaggio alla mercé del diluvio, oltrepassando i laghi di Attersee e Traunsee in quella che è stata un’avvincente gara contro l’imbrunire. Durante questo tragitto, i volontari dell’Aned ci hanno illustrato nel dettaglio quello che sarebbe stato il programma dei due giorni seguenti: avremmo dapprima fatto visita al Castello di Hartheim, situato poco lontano da Gusen, una frazione del comune di Langenstein, anch’essa tappa del nostro itinerario; dopodiché, nel pomeriggio, ci saremmo invece recati a Mauthausen, il principale campo di concentramento austriaco, che avremmo visitato nella maniera più meticolosa possibile; come è doveroso fare quando, rispolverando il passato, ci si trova a dover sollevare il velo di tanto macabre profondità.

Dove il Danubio riposa, tra le placide colline dell’Alta Austria, giace una città piena di vita, ricca di monumenti storici e di infrastrutture moderne, i cui campanili sfidano con coraggio le alture della valle: Wels, come del resto si sono rivelati i suoi abitanti, è una città fieramente ambiziosa.

Con una serata di relax ed una cena a base di piatti tipici si conclude la nostra prima giornata, fatta di asfalto, caffè, musiche e piogge.

Hartheim e Gusen (oltre le scorze)

Il Castello di Hartheim viene edificato nel diciassettesimo secolo da una famiglia nobile di origine austriaca. Situato in prossimità della linea ferroviaria e dotato di un possente assetto strutturale, l’edificio viene confiscato dai nazionalsocialisti un anno prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. In breve tempo il Castello di Hartheim viene trasformato in una struttura propedeutica alla morte, e saranno decine di migliaia le persone assassinate in questo luogo, quasi tutte affette da disabilità fisiche e/o mentali, ossia le principali vittime del piano di “eutanasia” nazista denominato Aktion T4.

Osservato dall’esterno, il Castello sembra essere un’innocua costruzione rinascimentale che si inerpica tra le case di Alkoven, una piccola cittadina di seimila abitanti; ad estirpare alla radice queste fallaci sembianze è il professor Orazi, che non appena giunti sul luogo ci ricorda che dalla struttura, dal ‘40 al ‘44, fuoriusciva quotidianamente un denso fumo nero, causato dai forni crematori perennemente in funzione. Questo importante dettaglio ci aiuta a comprendere meglio le mostruosità che il Castello doveva nascondere al suo interno; seguendo lo storico abbiamo potuto osservare la totalità del piano terra dell’edificio, dove erano situate le stanze che i corpi, in meno di un’ora, attraversavano – corpi, perché uomini privati di un’identità, corpi ritornano ad essere –.

I “pazienti”, infatti, una volta effettuato il riconoscimento e stilato un certificato di morte fasullo, venivano fatti spogliare in una stanza fredda ed umida, per poi essere condotti nella camera a gas: si tratta di una sequenza di stanzoni con il soffitto a volta, con le pareti dipinte di un bianco purificatore che mai – l’orrore che fu – purificherà. Segue un’ulteriore camera, configurata con la medesima, terrificante, semplicità delle precedenti, dove le salme venivano ammucchiate – come cataste – in attesa di essere smaltite dai forni crematori.

Questo orribile processo, malcelato tra le piccole casette di Alkoven, strappò alla vita più di trentamila anime innocenti, le quali, ogni giorno, possono ritrovare una dimensione unicamente dimorando entro il margine dei nostri ricordi.

La mattinata è proseguita con la visita a Gusen, uno dei principali sottocampi di Mauthausen. Negli anni, purtroppo, la reale fisionomia del campo nazista è stata irrimediabilmente alterata: l’espansione delle zone residenziali ha reso pressoché impossibile l’individuazione di una qualche traccia inerente alla storia del luogo; le uniche eccezioni sono rappresentate dall’ingresso e dall’edificio designato agli alloggi delle SS che, per quanto grossolanamente convertiti in abitazioni, lasciano trapelare il tetro sentore che la città, dietro la sua coltre di – immemori – residenze, sembra voler nascondere. Ci troviamo davanti all’essenza di un tema cardine del nostro viaggio: la damnatio memoriae.

Sembra legittima, ai più, la volontà di cancellare l’indelebile ricordo con cui i regimi nazi-fascisti hanno sfigurato il secolo scorso; è invece fondamentale, per quanto doloroso, preservare la memoria delle persone – nonché dei luoghi – al fine di comprendere il passato in tutti i suoi meccanismi.

Ecco perché all’ombra del Memoriale di Gusen abbiamo ascoltato le importantissime testimonianze di alcune vittime, che attraverso la ricostruzione delle proprie giornate sono riuscite a riportare alla luce tutto ciò che l’indifferenza, l’insensibilità ed il negazionismo tentano – fallendo, grazie a noi – di reprimere.

Mauthausen (Geometrie)

È complesso trasmettere con la dovuta accuratezza ciò che si prova al primo interfacciarsi con un luogo del genere. Tenterò.

Il campo si trova alla sommità di una collina che brilla di un verde rigoglioso ed uniforme; il percorso si palesa fin da subito estremamente ripido, e la pendenza sembra perfino accentuarsi alle parole di chi ci guida, che ci spiega come i prigionieri dovessero raggiungere l’ingresso del campo percorrendo a piedi l’intero tragitto. Il cielo è terso ed il sole splende sui vetri del bus, sull’erba circostante e su quella minuscola sottigliezza nera che vedo in lontananza. È questione di secondi, o poco più.

In pochi attimi si palesa, in cima alla tanto florida collina, una sequenza di tetti spioventi ed affilati che lasciano presagire – bastano pochi centimetri – l’aura sinistra del luogo. È una sensazione cupa, fredda: tutti la sentono sotto i vestiti. Io, dal mio canto, la sento anche sotto la pelle.

È con tutto fuorché gli occhi che mi ritrovo a squadrare l’insipidità delle mura, le sequenze di torrette e gli scorci bui delle finestre di Mauthausen. I suoi muri sono spogli, ruvidi, le scale di pietra malmesse e pericolanti, ma soprattutto, a rimanere impresso, è il mai quieto cigolare delle assi di legno che calpesto. È bene ricordare – ricordare – che i corpi non sono mai soli; a conservarsi, nel tempo, vi sono anche i loro suoni.

Ci apprestiamo a visitare le stanze protagoniste delle principali funzioni del campo. I prigionieri ritenuti abili al lavoro, una volta giunti a Mauthausen, venivano spogliati, rasati a zero e muniti di un numero di riconoscimento che veniva cucito sulle loro vesti, divenendo così stücke – pezzi –. I deportati venivano quindi lavati con una doccia bollente ed una gelida, per poi essere condotti nelle baracche designate alla quarantena, dove sarebbero rimasti, con indosso soltanto una camicia, dei pantaloni ed un paio di zoccoli di legno, all’incirca tre settimane.

I miei compagni ed io percorriamo le stanze dove quotidianamente si consumava la crudele liturgia, raggiungendo le docce tramite gli impervi gradini di una rampa di scale, dove spesso e volentieri i prigionieri inciampavano creando il pretesto per una punizione – o, nel peggiore dei casi, di una vera e propria esecuzione a sangue freddo –. I tubi delle docce sono intatti, nonostante la ruggine e l’umidità, ed aggirandomi tra le colonne dello stanzone non mi è difficile immaginare il groviglio di corpi nudi in preda allo sgomento ed alla confusione. Posso dire la stessa cosa per quanto riguarda le camere a gas del campo, che differiscono dalle docce soltanto per dimensioni.

Ancora una volta, è il bianco intonso delle mattonelle – o forse l’odore così anonimo dell’intero ambiente – a rimanere impresso: è il profilarsi della più generica stanza di un ospedale moderno, con la differenza che all’interno di quelle pareti la morte non conobbe freno, ma soltanto la mostruosità di un’accelerazione.

Il campo di Mauthausen è stato l’unico campo di concentramento nazista di “classe 3” (annientamento attraverso il lavoro), e prevedeva che i prigionieri trasportassero enormi pietre di granito lungo la cosiddetta “Scala della Morte”: si tratta di una ripidissima rampa di scale lunga 186 gradini che si arrampica lungo il fianco della collina fino a raggiungere un ingresso laterale del campo.

Percorrerla è stato per me un momento di estrema importanza, perché ha significato il poter toccare con mano – seppur in maniera esponenzialmente più mite – una delle esperienze più atroci che i deportati dovevano invece sopportare di giorno in giorno. Ho immaginato, discendendo i gradini, le file di prigionieri scivolare sul ghiaccio, arrancare sotto il peso del granito, e soccombere precipitando nel baratro antistante, spintonati – o fucilati – dalle sentinelle delle SS.

È ai piedi della collina, sull’erba di un prato, che il mio sguardo – e me ne accorgo – torna a guardare in alto: perché nessuno ci pensa, ma quando ci si trova in luoghi del genere, gli occhi rimangono puntati solo ed esclusivamente su ciò che ci si para davanti; tutto il resto svanisce, sbiadendo in secondo o in terzo piano. Tutto inizia e finisce dentro quelle mura, dietro quelle torrette ed oltre quei fili spinati.

Ed io li osservo di nuovo – con altri occhi –, da laggiù, dalla base di quella maledetta collina, e li ritrovo compressi nella sottigliezza che tanto fervidamente mi rimase – e tutt’ora rimane – in mente. Cosa si nascondesse, nei meandri di quella pallida geometria, potevo forse indovinarlo; certo, non viverlo. Eppure, grazie a questo viaggio, agli insegnamenti dei docenti ed a tutte le persone che hanno lottato per preservare la memoria di questo luogo – e di queste persone –, sento di averlo compreso.

Ho capito che no, questo non è un uomo. E che, grazie alla memoria, uomo potrò essere io.

Ho cercato, ove possibile, di non utilizzare il passato remoto, per quella che personalmente ritengo una questione simbolica. Nel caso in cui questa mirata omissione abbia ostacolato la lettura dello scritto, si sappia che si tratta di una scelta accuratamente ponderata e, come tale, l’autore se ne assume ogni dovuta responsabilità.

Federico Spagnoli

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2 commenti su “Guardare al passato con occhi diversi, ovvero l’importanza della memoria per il cittadino del futuro

  1. Questo diario/tema e’ davvero intenso e vero, e’ toccante percepire come si possa creare con la memoria un’empatia fondamentale con il passato tra le giovani generazioni

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