di Federico Spagnoli
Io mordo. Io fuggo.
Era il 15 gennaio. Il mondo – pelle e ossa – sbiadiva consumato da uno sciame di esistenze mordi e fuggi. Si credeva che la vita andasse azzannata, là fuori, che bisognasse spremerla e prosciugarla fino all’ultima goccia; e si diceva, tra gli uomini, che soltanto una volta satolli si fosse legittimati ad abbandonarla, placidamente. Lo credevo anche io. Ai tempi mordevo, dilaniavo la mia vita proprio come tutti gli altri.
Era il 15 gennaio. Un uomo si presentò nel mio studio dentistico.
“Mi affili i canini” disse guardandomi.
Quel giorno capii che fare parte di uno sciame significava fare parte di un ronzio, e quindi di una melodia. Fuggii dunque, per la prima volta della mia vita, saltellando tra una nota e l’altra, braccato dall’imperativo del rimanere a tempo. Fuggivano le mie gambe, le mie mani; fuggivano i miei occhi, che incalzati dal ticchettio degli orologi – battitori –, cercavano salvezza nella lungimiranza dei calendari – bracconieri –.
Era il 15 gennaio. Abbandonai il cliente e mi presentai alla redazione di un giornale.
“La vita è una caccia all’uomo” dissi guardandoli.
La vita è una caccia all’uomo.
Quest’oggi ho deciso di riportare in un articolo le parole di un uomo che una mattina, senza preavviso alcuno, si materializzò davanti alla porta del mio ufficio. Era vestito con un camice bianco e indossava degli strani calzari, forse un dentista impazzito. Mi prese con sé, per un braccio, e mi ricondusse verso la scrivania dalla quale mi ero alzato. Si sedette di fronte a me, indicando con un cenno dello sguardo il mio taccuino degli appunti. Sorvolando completamente tutti i miei interrogativi circa la sua identità e le sue ragioni, l’uomo iniziò a parlare. Fu solo una volta che ebbe terminato il suo discorso che fui in grado di constatare che per quanto bizzarra fosse stata la dinamica, l’uomo parlò a ragion veduta.
“Seppur io condanni la venalità, mi sento di paragonare la vita all’acquisto materiale protagonista dei nostri desideri più profondi. Il bene in questione, tanto bramato in principio, una volta ottenuto perde quel valore intrinseco che sembrava appartenergli. Quando piove a dirotto, ad esempio, rimpiangiamo il sole, dapprima ignorato. E il mio, di sole, era Lily: mia moglie. Parlo al passato perché è venuta a mancare un mese fa; non ho ancora la forza di dilungarmi sulle circostanze. Dio solo sa quanto l’amassi e Dio solo, ingiustamente, avrebbe potuto portarmela via.
Ora non ho più paura di morire. Non nascondo di avere passato settimane buie, dove la morte mi è apparsa così ripugnante da sedurmi. Ho invece capito che se provassi a raggiungere mia moglie – prima del mio tempo – lei mi guarderebbe con gli stessi occhi che fulminavano chi sprecava il proprio talento, il proprio dono, sui banchi dell’università dove insegnava. Perché la vita è un dono che prendiamo in prestito, ricordava ai suoi alunni, e prima o poi va restituito. Ricordarla è il mio modo di mantenerla viva – fiato sulla fiamma – , altrimenti come potrei riconoscerla, una volta riuniti?
Mi sento sopraffatto, trascinato da una corrente di acque torbide che scorre accarezzando i miei scrupoli; scogli affilati del mio fiume in piena. Tutto mi appare ostile, anche la mia famiglia, che colmando a stento la distanza siderale che ci separava, mi ha raggiunto portatrice di un dolore figlio della circostanza, così rarefatto da ferirmi a sua volta.
La mia vita, persa per sempre l’intimità nella quale potevo rifugiarmi, crolla: le parole si bloccano in gola, i gesti mi rimangono in tasca. Soltanto questa mattina, grazie all’ottusa richiesta di un uomo, cliente del mio studio dentistico, mi sono convinto. Perché ho capito che l’amore – il mio amore – dimorerà in eterno immortalato nella mia memoria; e nessuno, nemmeno la morte, potrà mai farlo sbiadire. Mai.”