Elegia (in prosa) sull’attesa

di Federico Spagnoli

L’attesa – anticamera di eventi –trapela dal tamburellare con le dita sul tavolo, con i piedi per terra, e dall’inventarsi distrazioni altrimenti infeconde che possano, in un modo o nell’altro, spalleggiare la nostra mente nella sua corsa.
L’attesa si tocca, si sente e, dalla giusta angolazione, si vede; che gli occhi siano vispi, mossi dall’ansia, o che siano immobili, taciturni, nel dettare il blando ritmo della tranquillità. Durante le attese il mondo sembra deformarsi – accendersi forse – all’interno di tutti quei dettagli che riaffiorano ai nostri occhi come lucciole al crepuscolo. È l’improvviso interesse per le scritte pubblicitarie, i connotati dei presenti, i suoni e gli odori, altrimenti celati sotto un indistinguibile velo d’abitudine.


Smarrita, perduta, è la volontà di assaporare il momento, di gustarlo: l’apparente futilità del masticare.
Al giorno d’oggi si ingoia in un sol boccone, senza curarsi del gusto né tantomeno della consistenza, meramente superflui fintanto che lo stomaco porta a termine il suo compito, ovvero riempirsi. Eppure, io credo che se le stesse parole venissero masticate più a lungo, con più attenzione, forse potremmo assaporarle realmente, invece di sputarle fuori con fare volgare come i semi di un frutto, perennemente dimentichi di come il primo si debba al secondo e viceversa.
Attendere il proprio turno, il proprio momento. Sono lampi che scagionano la nostra fantasia, che intorpidita dall’eccessivo agire opposto al riflettere, si risveglia come un macchinario dai rugginiti ingranaggi. E mormora, questo macchinario, riducendo il connubio di questi pensieri ad una sola parola, splendida, limpida: fantasticare.
L’attesa non è per tutti, anzi, nella maggior parte dei casi si tratta di un aspetto vano, sprecato, che la gente addirittura teme. Mi sento circondato da persone che nuotano in una paura ad esse intangibile, fuori portata. Quando non prendono parte a qualcosa, che sia un evento o anche solo una conversazione, queste persone si spaventano – ritrarre – percependo il tempo fermarsi, assopirsi, e, come fosse il sangue delle loro vene, cercano in tutti i modi di agevolare la ripresa del suo scorrere.
Oggi tutto ciò che accade è una plausibile liana alla quale appendersi per non perdere la connessione con il mondo, che dal canto suo fermarsi non sembra mai. Il nostro tempo diventa una creatura da nutrire, e noi la cibiamo con notizie ed eventi insignificanti, contribuendo ad evangelizzare le notorietà altrui. Riempiamo il tempo proprio come uno stomaco, illudendoci nel tentativo di sfamarlo.
La vuotezza spaventa chi prova a riempirla, mentre ispira chi prova ad accettarla; ecco perché un’esistenza effimera è la giusta pena – o forse un’ingiusta benedizione – per chi il tempo non lo accetta, ma lo inganna. 

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