Lettera a Babbo Natale

di Federico Spagnoli

Caro Babbo Natale, 

quest’anno compio settantatré anni, e vorrei tanto sapere se lei esiste davvero.
Quando ero bambino – tanto, tanto tempo fa – avevo imparato, grazie a lei, ad ascoltare i rumori della casa; perché la casa parla, parla sempre, e non si sbaglia mai.
Sdraiato a pancia in su, sotto le mie coperte color melograno, ero in grado di riconoscere i miei familiari concentrandomi solo ed esclusivamente sul peso di quei loro passi, che calavano goffi o aggraziati, sul pavimento, in base a chi stesse attraversando il corridoio; perché la casa parla, parla sempre, e non si sbaglia mai.
E mi sussurrava che la mia mamma era in cucina, grazie agli oggetti che si posavano dolci; che il mio papà era entrato in bagno, grazie allo svelto socchiudersi di quella porta cigolante; e che i miei fratelli erano ancora svegli, come ladruncoli, e zampettavano in punta di piedi, da una stanza all’altra, facendosi strada verso la dispensa e confidando nel mio appoggio, che non mancava mai; perché la casa parla, parla sempre, e non si sbaglia mai.
Ma di lei, signor Babbo Natale, non mi ha mai parlato. Ho speso decine e decine di notti sveglio, da solo, nella mia stanza, ad aspettarla: mi sarei potuto mettere in salotto, di fianco all’albero, certo, ma allora la sfida dove sarebbe stata? Volevo sentirla, tutto qui; sentire lei fare irruzione dal camino, di soppiatto, gli zoccoli dei suoi animali cozzare contro il tetto, o magari la sua slitta sibilare, come per magia, mentre fende il vento che aggiusta la notte. Eppure non ci sono mai riuscito.
Lei mi spaventa, questo lo sa? Quando vedo quelle immagini – quelle immagini – al telegiornale, in televisione, che immortalano uno dei suoi avvistamenti, mi si contorce lo stomaco dalla paura. Dio come mi spaventano, quelle renne demoniache a trainare la sua slitta tra le nubi.
Lei è un uomo fortunato – e questo lo sa? – perché può celarsi dietro il velo, che tutto copre, dell’immaginario collettivo. Ma io non ci credo, e non ci crederò mai.
Io vedo quella sua slitta, nei miei sogni, e riesco a sentirne il sordo scricchiolare, e poi quel legno scuro, come un’ombra al chiaro di luna; e riesco a sentire sulla mia stessa pelle lo sbuffare bollente di quelle renne che governa, e tremo al rintocco di quei loro passi velocissimi, come battiti di un orologio impazzito, che trascende il tempo stesso; vi vedo – voi tutti – viaggiare come lampi, nella notte, mentre lei si asciuga dalla fronte il sudore ed il sangue di quelle bestie che frusta, che colpisce e che incita, vibrando colpi di cuoio e di borchie. E mi sveglio di soprassalto, bagnato dalla testa ai piedi – deglutire – perché la percepisco vicino: trattengo i conati di un vomito denso come l’inchiostro al solo sapere che lei potrebbe essere lì, a pochi metri da me, nell’altra stanza – mentre dormo –, ricoperto di brina e con la barba fumante, possessore di ogni mia vulnerabilità.
Lei entra ed esce, in una frazione di secondo, come un pensiero, violando i confini di tutto ciò che mi rimane; ha accesso alla mia casa, alle mie camere e, da quando i miei genitori mi hanno introdotto la sua persona, anche alle stanze della mia mente.
La casa parla, parla sempre, e non si sbaglia mai; eppure, da quando mi ha sussurrato – lasciandomi solo – di smetterla di scriverle queste lettere, la mia paura nei suoi confronti non è cessata. Anzi.
È da quando sono cresciuto – tanto, tanto tempo fa – che meditavo di scriverle qualcosa del genere.
Poi un giorno, lavandomi i denti, e sputando sangue, ho capito di aver trovato le giuste parole: sono stanco di essere il cazzo di filo interdentale tra i denti aguzzi di questo dubbio che mi divora. Per cui la prego, signor Babbo Natale; quest’anno la mia richiesta è una ed una soltanto. Esista sul serio o la smetta.
La smetta di fingere di esserci.

© Riproduzione riservata

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *