Chi cerca lavoro cosa cerca? Quali sono gli argomenti più convincenti che un’azienda può offrire per risultare interessante e quindi attrarre le competenze di cui ha bisogno? E come fare a trattenere i talenti?
Premesso che anche in questo ambito le differenze tra una generazione e l’altra sono notevoli, gli elementi che condizionano le scelte sono noti: l’equilibrio tra lavoro e vita privata, la retribuzione, la sicurezza del lavoro, il sentirsi realizzati, la flessibilità di orario e la possibilità di lavorare da remoto, le opportunità di formazione e di avanzamento di carriera, le varie forme di welfare aziendale, i valori del datore di lavoro e il coinvolgimento nel progetto.
Come emerso nel corso di Farete, l’evento organizzato da Confindustria Emilia alla Fiera di Bologna al principio di settembre, ben il 66% delle 3.400 imprese associate a Confindustria Emilia fa fatica a trovare lavoratori con le competenze necessarie. Un dato che è destinato ad aumentare nei prossimi due anni. Tra i profili più richiesti e difficilissimi da trovare spiccano quelli legati a settori come l’information technology e l’automazione. Mancano tanti tecnici specializzati e ingegneri, ma anche figure di medio livello, per le quali è in corso un fenomeno che ha raggiunto i contorni del calciomercato.
A monte del problema c’è l’inverno demografico: facciamo pochi figli. E forse anche un sistema formativo non abbastanza dinamico e capace di comunicare ai ragazzi e alle loro famiglie le opportunità di futuro che offre il territorio. Al momento si è in una fase di reflusso, con l’economia regionale legata alla manifattura che ha rallentato, e la delusione di chi pur avendo investito su figure di medio-alto livello non ha trovato le capacità e i risultati sperati. Ma il problema rimane e le aziende più strutturate hanno puntato sulla formazione interna, offrendo direttamente corsi e percorsi di selezione.
Il presidente della Delegazione del circondario imolese di Confindustria Emilia, Marco Gasparri, dice che la legge regionale sui talenti, «è bel provvedimento, ben fatto, avveniristico, però ci ha solo messo una pezza». E che «se si vogliono attribuire delle colpe precise per questo effetto calciomercato, beh, le agenzie del lavoro interinale, gli head hunter, hanno una buona parte della colpa: persone anche talentuose sono state spostate più volte senza che ci fosse alcuna vera giustificazione». Ma la questione è più complessa e articolata.
La “filosofia del bullone”
«Ci scontriamo con il fenomeno delle persone che non studiano e non lavorano, i neet, che credono si possa tranquillamente campare border line con l’economia digitale, con le app, con i video su Youtube. Mentre in realtà nella nostra cultura industriale c’è ancora bisogno di avvitare il bullone, e quindi delle persone che lo sappiano avvitare».
«Questa regione per il 25% produce, per il 25% trasforma, per il 25% impacchetta e per il 25% consuma. Le prime tre fasi sono fasi in cui la manifattura, l’opera dell’uomo, ha ancora un’importanza enorme. Noi non siamo una regione in cui si può pensare di sostituire questa cultura, questa capacità di fare con la robotica e con l’intelligenza artificiale, col 4.0, il 5.0… Nel mondo ci apprezzano per la nostra tradizione di qualità, che è anche saper montare una macchina, essere capaci di farla funzionare bene. Pensavamo che con la internet economy bastassero una tastiera e un mouse per diventare ricchi e invece le bolle speculative, soprattutto in una regione come la nostra, ci hanno mostrato come tutto alla fine si deve tradurre in qualcosa di tangibile, di concreto».
Ma come si diventa attraenti?
«Ciò che dico a tutti gli associati di Confindustria, a partire dalla mia azienda, l’Aepi, la prima cosa per essere attraenti verso l’esterno è diventare interessanti per le persone che ci sono già, che nell’azienda già ci lavorano. Perché non c’è miglior recruiter delle persone che lavorano con te. Se le persone le stai trattando bene con le scelte di welfare, della conciliazione dei tempi casa-lavoro, della parità di genere, ecc.. sono il migliore reclutatore che hai a disposizione. Però con le tue persone ci devi parlare, devi spiegargli e fargli comprendere le esigenze dell’impresa e ascoltare le loro esigenze, condividere. Se l’azienda è interessante e si dimostra realmente interessante al proprio interno, e chiariamoci, non bastano qualche post o qualche video sui social, la vetrina migliore è quella che hai dentro. Per cui se le tue persone, che ascolti, che intervisti, ti rivelano un buon livello di funzionalità, di comprensione, di adattamento, e soprattutto un livello alto nell’essere orientati al cliente, poi non fai fatica, fuori, a raccogliere le candidature».
Le persone cosa chiedono?
«Le persone chiedono di avere un piano formativo certo; di avere la possibilità per cui, se un giorno non possono venire al lavoro, gli è consentito di lavorare da casa. Anche se, detto tra parentesi, io non sono un tifoso dello smart working all’italiana, preferisco parlare di remote working, che è un concetto diverso: ti vengono dati degli obiettivi e se li raggiungi lavorando da casa non c’è problema. Una questione che prima o poi nel nostro Paese dovremo affrontare è che si lavora troppo per orari e troppo poco per obiettivi. Ovvio che non tutte le operazioni possono essere svolte da casa, ma per certe funzioni come governare le altre persone, pianificare attività, gestire il ciclo attivo o il ciclo finanziario, ecc… c’è lo spazio per introdurre una maggiore razionalizzazione per obiettivi».
C’è un problema di produttività
«In Italia la produttività è troppo bassa, ed è uno dei nostri grandi problemi. Anche in Emilia-Romagna, dove è comunque mediamente più alta che altrove. Il motivo? Siamo persone che non sanno concentrare le pause, non sanno concentrare le distrazioni, non sanno concentrare gli eventi esterni. Tutti fattori che incidono negativamente sulla produttività. Soprattutto nelle aziende in cui il coordinamento mano-cervello è fondamentale. Prima di fare si dovrebbe pensare, un concetto che personalmente ho compreso appieno nel mio impegno all’Istituto di Montecatone. Invece in molte aziende, prima si fa poi si pensa a quello che si è fatto. È il portato della nostra storia, iniziata con l’artigianato, nelle botteghe, nelle piccole cooperative che sono diventate grandi. Pensare prima di fare, per fare bene subito, è invece quello che ti fa recuperare produttività. Le istruzioni giuste al momento giusto sono più importanti di fare una pausa caffè in meno».
«Non basta aggiungere soldi nelle buste paga»
«Non basta aggiungere soldi nelle buste paga nella contrattazione di secondo livello ma bisogna coinvolgere di più le persone. Come possono diventare più produttivi nei confronti dell’azienda e dei loro colleghi? Perché, sia chiaro, dentro le aziende siamo tutti parte della stessa catena del valore, tutti sono nello stesso tempo clienti e fornitori, dal magazzino al collaudo. Ognuno dentro una azienda ha qualcuno dietro e qualcuno davanti. D’altronde l’impresa cos’è se non una organizzazione complessa che prende qualcosa e lo rende diverso da quello che era, lo trasforma. E questo è ancora più vero in Italia dove, non avendo materie prime, dobbiamo per forza trasformare qualcosa in qualcos’altro. Per incrementare la produttività bisogna quindi innanzitutto coinvolgere le persone, fornire strumenti per misurare il proprio benchmark, il proprio Kpi, in modo tale che il rendimento di ciascuno sia utile ed evidente a se stessi ma anche alla collettività dell’azienda in cui si lavora».
Ma nel territorio a che punto stiamo?
«Personalmente non ho mai visto sindacati che si siano tirati indietro, di fronte a contratti di secondo livello che coinvolgono le persone sulla produttività. Ho visto invece sindacati molto collaborativi. Molto più a Imola che a Bologna. E questo perché le organizzazioni sindacali imolesi hanno a cuore il loro territorio, non sono “sindacati di tessera” ma vivono la vita con l’imprenditore. È un portato storico, viene dai vecchi, e faccio qualche nome: da Balducci padre, da Paolo Liverani, da Polgrossi, Silvestrini, Dal Pane, anche da Pino Rago. A Imola c’è un livello molto alto di comprensione delle situazioni territoriali. E anche i nuovi segretari sono vicini all’idea di fabbrica, all’idea di impresa, non contrastano la vita dell’imprenditore. Anzi, sono consapevoli che se l’azienda va bene ci guadagnano anche i lavoratori. E questo avere evitato di mettere muro contro muro ha un effetto positivo anche sulla produttività.
Da quanto tempo non vediamo delle bandiere rosse per il rinnovo dell’integrativo?! A Bologna per ogni rinnovo si fanno giorni e giorni di sciopero. Qui il sindacato e l’impresa si parlano, la partita la giochiamo con trasparenza. Perché tutti, allo stesso modo, abbiamo a cuore la nostra collettività. I sindacati si preoccupano quando c’è la cassa integrazione, quando ci sono dissesti aziendali causati da imprenditori spregiudicati, fenomeni che qui fortunatamente non vediamo. E questo, lasciatemelo dire, anche perché Confindustria ha lavorato bene, anche nel rapporto col sindacato. Sanno che con noi si può dialogare. E oggi dobbiamo comprendere che non si possono avere relazioni industriali se non sono vere relazioni, nel senso più proprio del termine. Non con un comunicato stampa, non con le lettere di licenziamento a cui si fa seguire la conciliazione. Non porti a casa il prezzo? Non guadagni abbastanza? Non trovi le persone o quelle che hai se ne vanno? I dubbi e le difficoltà vanno condivisi».
Poi c’è un altro tema: la premialità sulla crescita
«Il modello di premialità diffuso nel nostro Paese è legato prevalentemente all’anzianità, mentre i temi a cui ancorarla dovrebbero essere fedeltà e capacità di crescita. Perché soldi, welfare e crescita devono stare insieme: non è possibile premiare una persona che non vuole crescere e devo poter dare welfare alle mie persone che ne hanno sempre più bisogno: piani assicurativi, buoni pasto, social card, palestra, ci si può inventare di tutto».
Sintetizzando
«Motivazione, allineamento delle prestazioni, coinvolgimento e impegno, promuovere una cultura orientata ai risultati, migliorare la misurazione delle prestazioni, guidare la crescita del business, aumentare la soddisfazione dei collaboratori. Tutti ci impegniamo su questi aspetti. Determinante è la definizione di obiettivi e di relazioni chiare, per tutti, perché gli stakeholder interni sono parte dell’ecosistema d’impresa, quindi devono avere chiara la destinazione del viaggio. E organizzazione per team.
All’inizio una cultura di questo tipo non c’era, ora si sta diffondendo. Purtroppo nel nostro territorio su questi temi vediamo una forbice enorme, aziende in cui è già una solida realtà e altre in cui anche solo il sistema di incentivazione è una conquista recente. Fino a 20 anni fa era già ritenuto degno di lode applicare per intero il contratto di lavoro! Nel mondo confindustriale no, perché se non applicavi il contratto eri fuori dall’organizzazione, ed era una macchia enorme, ma nell’artigianato ci sono ancora molti gradi d’ombra. A fare la differenza sono la dimensione e la cultura dell’imprenditore».
Ma siamo abbastanza maturi?
«Sì, sì sì. Per molte aziende è già così. L’importante è che l’imprenditore non lasci solo nelle mani di chi si occupa delle risorse umane. L’imprenditore deve avere un’idea chiara delle persone che sono a bordo, e le persone devono sapere che possono venire a parlarti di qualunque cosa. La delega va benissimo ma deve essere efficace e funzionale agli obiettivi dell’azienda. Occorre essere appassionati, sporcarsi insieme, senza dimenticarsi da dove si è partiti e quello che gli imprenditori di oggi hanno avuto da chi li ha preceduti. L’unico modo per avere una cultura aziendale diffusa è vivere di più con le persone, sentire e condividere lo stesso clima aziendale».