Non c’è stato un grandissimo del teatro italiano che come Glauco Mauri avesse più fili che lo collegavano a Imola, al suo palcoscenico, alla sua storia, alla città. Come si può scoprire con una veloce ricerca nell’archivio digitale dell’Ebe Stignani è stato l’attore più presente sul palcoscenico del teatro comunale imolese, in ben 18 stagioni tra il 1976 e il 2022, dove è salito come attore e dove è stato regista. Uno dei film che mostra di più Imola e i suoi dintorni, la gente di Romagna e i suoi palazzi è “La Cina è vicina” di Marco Bellocchio del 1967, di cui Glauco Mauri fu il protagonista. Mauri se ne è andato nella tarda serata di sabato 28 settembre a pochi giorni dal suo 94° compleanno, e noi lo ricordiamo con questa bella testimonianza personale, professionale e artistica del direttore dei Teatri comunali di Imola. Buona lettura.
di Luca Rebeggiani – Direttore Teatri di Imola
Mi hanno chiamato domenica mattina presto un paio di colleghi per darmi la notizia. È vero, avrebbe compiuto 94 anni il primo ottobre e se non era oggi sarebbe stato domani o al massimo dopodomani. Ma ugualmente sono rimasto muto, senza parole, come capita quando le icone se ne vanno da questa terra. Le credi immortali, ci sono sempre state e sempre ci saranno.
Ho conosciuto Glauco ormai trent’anni fa. Era il giugno del 1995, lavoravo ancora a Trieste ma ero fresco di incarico per la prima stagione allo Stignani e volevo un suo spettacolo per inaugurare. Mi dissero che stava lavorando a un progetto ambizioso: Edipo re ed Edipo a Colono, due tragedie di Sofocle nella stessa serata.
Avevo conosciuto Roberto Sturno di sfuggita, ma Glauco mai. Ci sedemmo tutti e tre a un tavolino in piazza Unità sotto un sole sfolgorante e un cielo, come lui mi disse subito, «blu Dalmazia», un cielo con un colore specifico «che vedi solo a Trieste». Cominciò a raccontarmi la sua idea dello spettacolo. Fui subito colpito dall’umanità dell’uomo, fui davvero stregato dalla dolcezza di quella voce suadente e incisiva allo stesso tempo, dalla ricchezza di armonici, dallo stile pacato, dai silenzi che con lui diventavano suono. Nessun atteggiamento da guru, da santone, da venerabile maestro come mi sarei aspettato. Anzi, mi colpì subito la concisione, il pragmatismo, sembrava divagare dentro una bolla di ricordi e aneddoti ma poi tornava sempre al punto. Mi colpì anche la sua capacità di ascoltare. Merce rara in teatro. Mi fece tante domande, mai con stile inquisitorio sebbene fosse chiaro che sotto l’apparente bonomia mi stava valutando per decidere se fosse il caso di affidare a un trentenne fresco di mestiere l’allestimento e l’apertura di tournée del suo nuovo spettacolo. Nell’ottobre seguente, dopo un periodo di prove, aprimmo il sipario dello Stignani sull’Edipo. E fu un grande successo. Si finiva ben oltre la mezzanotte ma il pubblico rimaneva lì, ad applaudire, come inchiodato alle poltrone.
Da lì in avanti costruimmo una profonda conoscenza professionale. Ci sentivamo al telefono, io lo raggiungevo da qualche parte per uno spettacolo e poi si andava a cena, e si parlava di teatro. Non avrei mai immaginato che da quell’incontro triestino avremmo avuto ben trent’anni di collaborazione, con debutti importanti. Dotato di una memoria prodigiosa, non solo conosceva a menadito non so quanti testi ma teneva a mente anche le parti dei colleghi. Seguirlo in prova era un’esperienza magnifica, una lezione di artigianato teatrale puro. «Sai cosa distingue un bravo attore da uno meno bravo? Guarda come muove le mani mentre recita».
In questi trent’anni da lui non ho mai sentito una parola di livore, invidia, rancore nei confronti di colleghi, mai una geremiade sulle sorti del teatro, mai una lamentela se una compagnia fosse finanziata dallo Stato di più della sua. Senza dubbio aveva le sue antipatie professionali ma se le teneva per sé. Tutelava e promuoveva gli attori giovani, quelli validi, che avevano lavorato con lui. Dopo la prima della Tempesta al Teatro Romano di Verona (1996) mi prese da parte e mi disse di andare assolutamente a vedere questo nuovo spettacolo di un giovane napoletano che aveva lavorato con lui in un altro allestimento. «Devi assolutamente vederlo. Porta in giro uno spettacolo che è una bomba». Era Vincenzo Salemme.
Si rammaricava sempre di non riuscire a vedere gli spettacoli dei colleghi. Aveva tournée lunghissime, da ottobre a maggio inoltrato, sera dopo sera in giro per l’Italia. E allora mi chiedeva in dettaglio cosa avessi visto, cosa faceva questo, cosa faceva quell’altro, come aveva risposto il pubblico. «Non si può fare teatro senza andare a teatro ma non posso farci niente. Il teatro è la mia casa e anche la mia prigione».
Ricordo un altro momento. Nel mondo della prosa, ancora oggi, vale la parola più dei contratti e degli impegni formali. Se un direttore di teatro dice che ti ospiterà in stagione, così deve essere. Un patto verbale su cui si costruisce una serietà reciproca e non si torna indietro né da una parte né dall’altra. Io avevo già messo in cartellone un suo nuovo spettacolo quando, nella stessa settimana, mi viene proposto un altro debutto importante. Era un De Filippo con Toni Servillo, attore straordinario che mai era venuto a Imola. Panico. Come fare? Tournée piene da ambedue la parti. O l’uno, o l’altro. In questi casi se ne viene fuori solo dicendo la verità. Lo chiamai con le orecchie basse pronto a sentirmi aggredire e invece mi sorprese. «Fai benissimo, lui è un bravo attore, lo spettacolo è magnifico e avrete una gran successo».
Era un nomade. Mi confidò che, prima di stabilirsi accanto alla famiglia di Sturno – considerava suoi nipoti i figli di quest’ultimo –, non aveva avuto mai una casa a Roma. Nelle pause delle sue interminabili tournée risiedeva in un paio di stanze in un hotel dalle parti del Teatro Quirino. Le fermava per tutto l’anno e lì teneva i libri, i cimeli, i ricordi. Il teatro era davvero la sua casa. Il direttore di scena, prima che arrivasse, non solo preparava il camerino di Glauco, ma lo arredava. Insieme ai trucchi c’erano miriadi di suppellettili che raccontavano la sua carriera e se ti sedevi lì, con lui, prima di andare in scena ti raccontava la storia di ogni oggetto. Roberto Sturno, che invece aveva il camerino vuoto, solo con i materiali di scena, francescano nella sua semplicità, lo prendeva in giro per questa sua abitudine. E cominciava sempre un’affettuosa schermaglia dialettica tra i due.
Se è vero che i teatri sono pieni di “galantuomini che mentono”, come mi disse Turi Ferro nell’intervallo di un Pirandello allo Stignani, ebbene Mauri fu invece un galantuomo che diceva la verità. Aveva una profonda onestà intellettuale, una cultura smisurata e una rara forza di autocritica. Una volta gli parlai in toni entusiastici di un suo Shakespeare che avevo visto da ragazzino. «Ti ringrazio molto, ma quello spettacolo era pieno di cose sbagliate. Certe cose sono capace di farle, certe altre no».
Non so davvero cos’altro aggiungere. Con lui si chiude una grande stagione del teatro italiano. So che sembra una frase di circostanza e anche un po’ banale. Ma parlando di Glauco diventa invece una sintesi di una carriera strepitosa. L’ho sentito l’ultima volta nel giugno scorso. Non toccai per pudore l’argomento della precoce morte di Sturno che sapevo l’aveva scosso nel profondo. Lo volevo invitare per Freschi di Stampa a presentare il suo libro di memorie appena uscito “Le lacrime della Duse”. «Non ce la faccio Luca. Alla mia età prendo solo impegni che mi permettano di rientrare e dormire nel mio letto. Se fosse di pomeriggio potrei venire da Roma e rientrare in serata, ma non farmi dormire in un hotel. E comunque non prendo impegni. Sono molto stanco».
Ero pronto a chiamarlo il primo ottobre per il suo compleanno. Come facevo sempre. Questa volta il sipario si è chiuso prima.