Fenomenologia di un gesto d’affetto

di Federico Spagnoli

Mi basta posare le mie labbra sulle sue –lasciarle lì – per riuscire a sentire quella sottigliezza farsi strada, a tratti incastrarsi, tra i respiri di scorta e le parole smarrite, che ho perso per strada.
Si dice che la perfezione non abbia odore, perché non si preannuncia mai; eppure io lo sento – è qui – ed è un aroma dai mille aghi, sottili come ciglia, che fremono, ligi allo spartito di una qualche palpitazione. Cerco di toccarla – è qui – e con il pollice e l’indice ne sfioro la curva, così liscia che le mie dita le scorrono sopra senza rilevarne le incrinature, le quali, celate dalla salvaguardia dei miei pensieri, svaniscono al tatto. La sua guancia di vetro è figlia di una trasparenza così pura che non serve invito alcuno, per accedervi. La sua vulnerabilità, immota, a pochi istanti da me, mi sfida a raggiungerla, esortandomi a lambirne lo spirito. E quindi desto la lingua, la mia lingua retrattile, quanto ho di più sensibile all’incombere di un rifiuto, e mi fido.
La spingo avanti – la tendo – oltrepassando sottigliezze, aromi e pensieri, e finalmente lo incontro: il suo sapore.
Mi scivola davanti accarezzandomi gli occhi. Lo vedo. Ne percepisco l’essenza, omologata per l’estorsione di lacrime, e cerco di confinarla alla punta della mia lingua, che naufraga lontanissima, alla deriva di una sponda non mia. È amaro e risoluto, come cotto dal sole, temprato dalle attese di cui non ho colpa. O forse sì.
Cingendo la sottigliezza, con le dita e con i denti, comprendo; mando giù.
E quindi, poso il bicchiere.

 

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