di Federico Spagnoli
Restaurare una fiaba cinese (secondo me)
Sulla sponda occidentale del Mar Giallo sorgeva, in tempi remoti, un piccolo villaggio chiamato Liu Zhuang. Vi abitava, all’interno di una delle tante casette in pietra, una coppia di contadini che mai avrebbe potuto immaginare, pensando ai propri figli, le vicende che ci apprestiamo a narrare.
Accadde – perché le cose accadono – che la donna mise al mondo cinque fratelli identici, uno dopo l’altro, i quali, una volta cresciuti e diventati adulti, svilupparono doti straordinarie.
Il primogenito, soprannominato “Colui che i Mari Inghiotte”, si scoprì in grado di poter bere, in un sorso soltanto, l’intero Mar Giallo;
Il secondogenito, soprannominato “Colui che il Fuoco non Sfiora”, si scoprì in grado di poter camminare in tutta tranquillità attraverso gli incendi, uscendo da essi completamente indenne;
Il terzogenito, soprannominato “Colui che il Cielo non teme”, si scoprì in grado di poter allungare gambe e braccia a proprio piacimento, e quindi di poter raggiungere i villaggi vicini con un semplice passo;
Il quartogenito, soprannominato “Colui che Accarezza le Lame”, si scoprì in grado di poter resistere a qualsiasi arma da taglio: spada, coltello o scure che fosse;
Il quintogenito invece era di indole più tranquilla, e la natura decise di accoglierlo con più dolcezza tra le proprie braccia, rendendolo in grado di poter comunicare con piante e animali: venne soprannominato “Colui che le Tigri Saluta”.
Accadde un giorno – perché le cose continuano ad accadere – che un importante ufficiale dell’esercito decise di organizzare, per celebrare il successo della più recente campagna militare, una gigantesca battuta di caccia. Le voci sono un pò come l’olio: si spargono facilmente e ripulirle richiede tempo e fatica. La nostra vicenda vuole che giunsero, queste voci, persino al villaggio Liu, ed in particolar modo all’ultimo dei nostri fratelli.
Non appena ebbe appreso la notizia, questo si precipitò fuori dal villaggio e corse, per tutta la notte, ad avvertire i suoi amici animali di starsene rintanati nei propri nascondigli fino al sorgere della prossima luna.
Il giorno seguente, l’ufficiale tornò dalla battuta di caccia a mani vuote, prese il proprio luogotenente per il collo, e non smise di stringere fino a quando quest’ultimo non ebbe indicato, come possibile colpevole, l’ultimogenito della nostra famiglia del villaggio Liu.
Venne ordinato alle guardie di catturare il ragazzo e di gettarlo in pasto ad una delle tigri appartenenti alla Riserva dell’Imperatore. Ma una volta nella gabbia, il ragazzo si sedette accanto alla belva a gambe incrociate, e le disse
– Ehilà, amica mia. Sono venuto a tenerti compagnia.
La tigre, come qualcuno avrà indovinato, non era molto abituata a scambiare due parole con qualcuno, e quindi si dimenticò della propria ferocia e prese a chiacchierare con il nuovo arrivato.
L’ufficiale, davanti a quello spettacolo, digrignò i denti per la rabbia, ed ordinò alle guardie di tagliare la testa al ragazzo l’indomani mattina.
Quando la voce giunse al villaggio Liu, la madre disperata pianse molte lacrime.
Poi sentì una mano carezzarle la testa, e la voce del quarto fratello che disse
– Madre, non ti preoccupare. Domani me la vedrò io con questa gente.
Si recò quindi alla fortezza, ed in tutto silenzio s’introdusse nella gabbia del fratello, il quale tornò, in groppa alla tigre, a casa a dormire.
Il giorno seguente le guardie andarono a prelevare il condannato e, siccome i fratelli erano identici, non si accorsero di nulla. Lo fecero inginocchiare, al centro della piazza d’armi, ed il boia si avvicinò brandendo una gigantesca spada. L’ufficiale diede l’ordine e… la lama si spezzò. Venne quindi cambiata la spada, una, due, tre volte, fino a quando, masticandosi la barba per la rabbia, l’ufficiale non ordinò che il ragazzo, l’indomani mattina, sarebbe stato portato sulla montagna più alta e gettato al di sotto.
Quando la voce giunse al villaggio Liu, la madre disperata pianse molte lacrime.
Poi sentì una mano carezzarle la testa, e la voce del terzo fratello che disse
– Madre, non ti preoccupare. Domani me la vedrò io con questa gente.
Si recò quindi alla fortezza, ed in tutto silenzio s’introdusse nella gabbia del fratello, il quale tornò, massaggiandosi il collo, a casa a dormire.
Il giorno seguente le guardie andarono a prelevare il condannato, senza accorgersi di nulla, e lo condussero sul monte più alto della valle. L’ufficiale diede l’ordine ed il ragazzo venne gettato nel vuoto. Cadendo, quest’ultimo cercò di trattenere una risata, e disse a bassa voce
– Allungatevi.
Immediatamente i suoi piedi toccarono terra e le sue gambe si allungarono a tal punto che si ritrovò a guardare l’ufficiale dritto negli occhi; come qualcuno avrà già intuito, trattenere la risata, a quel punto, si rivelò pressoché impossibile, e l’ufficiale si strappò i capelli dalla rabbia ordinando che il ragazzo fosse bruciato vivo l’indomani mattina.
Quando la voce giunse al villaggio Liu, la madre disperata pianse molte lacrime.
Poi sentì una mano carezzarle la testa, e la voce del secondo fratello che disse
– Madre, non ti preoccupare. Domani me la vedrò io con questa gente.
Si recò quindi alla fortezza – non prima di aver preso una grossa forma di pane dalla tavola – ed in tutto silenzio s’introdusse nella gabbia del fratello, il quale tornò, con un passo soltanto, a casa a dormire.
Il giorno seguente le guardie andarono a prelevare il condannato, nulla sospettando, e lo portarono davanti ad una pira gigantesca. Venne acceso un grande fuoco, che luccicò nel sorriso compiaciuto dell’ufficiale fino a quando il ragazzo non estrasse la forma di pane dalla manica della veste e si mise, in tutta tranquillità, ad arrostirla sul fuoco. I luogotenenti si fecero indietro di qualche passo, nascondendosi l’uno dietro l’altro, vedendo l’ufficiale pestare i piedi al suolo dalla rabbia.
Ordinò, una volta calmatosi, di riportare il ragazzo in cella: l’indomani gli avrebbero legato un peso alla caviglia e gettato in mezzo al mare.
Quando la voce giunse al villaggio Liu, la madre disperata pianse molte lacrime.
Poi sentì una mano carezzarle la testa, e la voce del primo fratello che disse
– Madre, non ti preoccupare. Domani me la vedrò io con questa gente.
Si recò quindi alla fortezza, ed in tutto silenzio s’introdusse nella gabbia del fratello, il quale tornò, a stomaco tutto sommato pieno, a casa a dormire.
Il giorno seguente le guardie andarono a prelevare il condannato e, senza sospettare di nulla, lo fecero imbarcare sulla nave dell’ufficiale, la quale fece vela lontano dal porto e gettò l’ancora una volta che l’acqua venne reputata sufficientemente profonda. Venne quindi fatto legare un peso alla caviglia del condannato e, sull’eco dell’ordine sbraitato dall’ufficiale, le guardie lo spinsero in mare. Il ragazzo aspettò di toccare il fondale – bisogna anche specificare che si annoiò un pò, durante questa discesa – e prese a bere l’acqua a grandi boccate. Una volta che ebbe terminato, prese in mano il peso e tornò a piedi alla riva, dove aprì la bocca e restituì al mare innocente tutta l’acqua che aveva inghiottito.
Quindi si recò dal fabbro più vicino, che lo aiutò a rimuovere il peso dalla caviglia, e tornò a casa, come accade soltanto nelle migliori fiabe, giusto in tempo per cena.