di Andrea Pagani
Nella meravigliosa lettera che nel 1959 François Truffaut scrisse ad Alfred Hitchcock, con l’intenzione di realizzare quella maratona di conversazioni che sarebbe poi diventato un libro-manifesto della cinematografia mondiale (Il cinema secondo Hitchcock), troviamo un passaggio fondamentale: «Ho visto cinque o sei volte tutti i suoi film e li guardo in primo luogo dal punto di vista della costruzione».
In altre parole, ciò che impressionò il regista francese – e tutta la Nouvelle Vague che si raccoglieva attorno ai «Cahiers du cinéma» – era il sistema strutturale, l’impianto, appunto la costruzione della storia, capace, come ammetterà lo stesso Hitchcock, di creare emozione, sgomento, suspense. Il montaggio delle scene, il crescendo della tensione, il climax in aumento sono la cifra stilistica di un genio della intelaiatura che riesce a caratterizzare i personaggi e i loro drammi interiori trasmettendo allo spettatore le stesse sensazioni di smarrimento, angoscia, inquietudine.
Si direbbe che l’abilità narrativa di Giampiero Rigosi, nella varietà dei generi che ha frequentato – dai noir ai romanzi intimistico-sentimentali alle sceneggiature – sia soprattutto una sorprendente abilità costruttiva, la capacità di muovere molteplici sentieri della storia, decine di personaggi in situazioni parallele, proprio come il montaggio di un film, per poi far confluire questi sviluppi paralleli in un centro comune, carico di emozione.
È ciò che avviene, ad esempio, nel celebre Notturno bus (non a caso prestato al cinema nell’omonima pellicola di Davide Marengo con Valerio Mastandrea e Giovanna Mezzogiorno), dove almeno tre snodi narrativi (la fobia del gioco di Francesco, i traffici di Diolaiti e Garofano, i piccoli furti di Leila) convergono al centro di una vicenda dal ritmo serrato per le strade di Bologna.
Ed è ciò che avviene – a dimostrazione del talento di Rigosi di lavorare con variegati generi narrativi – nella voluminosa storia di Ciao Vita, dove la tormentata vicenda della malattia terminale di Vitaliano Mongiorgi (e quindi della sorella Anna), s’intreccia a quella, segnata d’una sommersa e non meno acuta inquietudine, del regista di successo Sergio e d’un misterioso io narrante, in un movimento temporale e geografico fra una Roma dei giorni nostri e una Bologna degli anni Settanta, ma soprattutto in un movimento introspettivo, alle sorgenti della propria identità, di fronte ai grandi temi dell’amicizia, dell’amore e della morte.
Con la grazia dell’esperto romanziere Rigosi sa condurre il lettore, in un’opera di oltre cinquecento pagine, sul crinale delle decisive domande esistenziali, ma senza esibita retorica né didascalica eloquenza, ma attraverso il sapiente e dimesso montaggio delle scene, la costruzione dei fatti, il crescente climax della suspense, con una perizia tecnica che vede fra i suoi modelli quel maestro del brivido che è Stephen King, non a caso anch’egli prestato alla scrittura del cinema.
È ciò che succede, per dirla alla Hitchcock, quando l’intrattenimento si fa riflessione esistenziale, quando l’evasione artistica diventa un pretesto per avviare una meditazione sul nostro sguardo sul mondo.