di Federico Spagnoli
Restaurare una fiaba australiana (secondo me)
Prima di inoltrarci nella narrazione vorrei fare un piccolo approfondimento su ciò che nella mitologia aborigena australiana è denominato il “Tempo del Sogno” , ossia l’epoca antecedente alla formazione del mondo.
Quest’ultima viene rappresentata, e dunque trova una sua dimensione, attraverso una serie di racconti che i popoli aborigeni si tramandano di generazione in generazione. Durante il Tempo del Sogno il mondo era già esistente (creato), tuttavia era come “indifferenziato” dal resto dell’universo – e dunque in formazione –. Ad abitarlo vi erano esseri totemici, metafisici, costituiti da creature gigantesche, zoomorfe, le quali, muovendosi, cacciando, danzando – o, semplicemente, esistendo – hanno lasciato nel mondo fisico, o perlomeno quello che noi oggi percepiamo come tale, le tracce delle proprie azioni: montagne, pianure, fiumi ed ogni altra morfologia della natura.
Luoghi ben precisi, secondo la mitologia aborigena, conservano, siccome teatri di avvenimenti di grande rilevanza (scontri armati, carestie, o altri eventi drammatici), una forza speciale che viene chiamata il “sogno” del luogo. Essendo il Tempo del Sogno da considerare sia come un vero e proprio “tempo”, dunque soggetto ad uno scorrimento lineare, sia come quella che noi definiremmo “dimensione”, dunque presente e persistente, gli aborigeni sono in grado di accedervi proprio grazie al “sogno”, attraverso il quale entrano in comunicazione con le entità appartenenti ai vari luoghi.
Ogni gruppo aborigeno custodisce un certo numero di racconti inerenti al Tempo del Sogno, dei quali è responsabile. Gli anziani, svolgendo il ruolo dei custodi, hanno il compito di tramandarli alle nuove generazioni attraverso le modalità previste dagli usi e costumi del proprio gruppo. La tradizione aborigena vuole inoltre che vi siano determinati racconti, considerati di grande importanza, che possono essere rivelati soltanto ad un particolare gruppo di persone o particolare individuo. Ad esempio, vi sono racconti sul Tempo del Sogno che conoscono soltanto le donne, o soltanto gli uomini.
Ci è nota soltanto una minima parte della mitologia aborigena, siccome i custodi di quest’ultima si rifiutano (giustamente) di narrare ai turisti racconti imprescindibilmente legati ai propri luoghi sacri. Molti potranno considerare quest’ultimo fatto come una tutt’altro che grave perdita, e le cose che ho appena riportato come un mucchio di cazzate; per quanto mi riguarda, invece, non è così. Il gesto di valorizzare ciò che si possiede – attraverso lo storytelling, in questo caso – è quanto di più prossimo alla reale comprensione di ciò che è accaduto ed accade tutt’intorno a noi.
E se qualcosa deve per forza accadere, bella o brutta che sia, che almeno stupisca. (N.d.A.)
Esisteva, una sostanziosa manciata di tempo fa, una comunità aborigena che viveva sulla costa, pescando l’eventuale e mangiando il possibile. Un giorno, accorgendosi – guardando giù – dei grandi sforzi della comunità e della misera rendita che ne ricavavano, il Popolo del Cielo decise di donare a Baracuma, il più esperto tra i pescatori aborigeni, una rete da pesca magica.
Questa era in grado di attirare a sé una quantità esorbitante di pesci, i quali facevano quasi a gara ad infilarsi tra le maglie della rete, come fossero falene alla vista di un lume. Non bisogna certo avere in dotazione una grande scorta di fantasia per immaginare che, ogni qualvolta Baracuma tornava dalla propria battuta di pesca, non bastassero dieci degli uomini più vigorosi della comunità per trasportare la rete fino alle capanne del villaggio.
Il mare è grande, ed altrettanto grande è la varietà di pesci che lo abitano; tuttavia lo stesso non si può dire per il numero di pesci presente sulla costa popolata dagli aborigeni. Infatti, i pesci che si fiondavano – come richiamati – nella rete di Baracuma, certo non potevano essere pescati dalle altre tribù, le quali avevano iniziato a patire la fame ed a riscaldarsi a fatica dinanzi al freddo che la mancanza di una soluzione gettava loro sulle spalle. Fu Wandi, un pescatore aborigeno appartenente ad una tribù amica di quella di Baracuma, a trovare il coraggio di chiedergli in prestito la rete magica.
– Concedimi la tua rete, Baracuma, la mia gente sta soffrendo la fame e da giorni non peschiamo più nemmeno una preda.
– Amico mio, proprio non posso: il Popolo del Cielo si prenderà la mia vita se, al tramontar del sole, non mi vedrà sulla mia costa con in mano la rete.
A quel punto Wandi si rattristò, e non trovò altro modo che prostrarsi ai piedi di Baracuma e, armandosi di promesse e lusinghe, supplicarlo fino a quando quest’ultimo non cedette.
– Sta bene, amico mio. Ma ricordati di portarmi la rete prima del calar del sole, altrimenti per me saranno guai.
– Non stare in pensiero. Nemmeno ti accorgerai di avermela prestata.
Fu così che Wandi corse via spargendo sulla sabbia – qua e là – le sue copiose lacrime di gioia. Raggiunse quindi la propria piroga e gettando la rete magica catturò grandissime quantità dei pesci più prelibati. Fece molti viaggi, correndo all’impazzata tra le capanne per convincere gli altri uomini a dargli una mano con il trasporto della rete carica di pesce. La tribù organizzò festeggiamenti e danze per celebrare l’imminente banchetto, e Wandi, completamente sommerso dalla propria gente esultante, dimenticò la promessa. Il tramonto – così si dice – sorprese il generoso Baracuma a mani vuote. Quando Wandi si ricordò dell’amico e delle sue parole, prese a correre più in fretta che poté nel tentativo di restituirgli in tempo la rete, ma invano. Il Popolo del Cielo aveva già fermato il suo cuore: era troppo tardi.
Wandi si disperò, strappandosi i capelli e graffiandosi il volto. Si appellò al Popolo del Cielo offrendo la propria vita in cambio di quella dell’amico, ma venne rifiutato. Era già stato decretato – sempre guardando giù – che era stata la grande generosità di Baracuma a spezzargli la vita, e dunque il Popolo del Cielo fece in modo che di quest’ultimo sopravvivesse almeno lo spirito.
– Baracuma ha speso la propria vita per gli altri, ed è giusto che venga fatta un eccezione.
Vennero quindi trasformati, rispettivamente, in due uccelli che mai prima d’allora si erano visti: Baracuma divenne il falco, mentre Wandi fu il gufo. Il primo vola alto nei cieli, vegliando sulle tribù e piombando all’improvviso sulle prede accecate dal sole; il secondo, invece, vola soltanto di notte, non emettendo alcun suono, e deve aspettare che il sole sorga per potersi posare. C’è chi pensa il Popolo del Cielo abbia scelto questi due animali in maniera casuale, e chi invece sa, riflettendo sulla nostra storia, che la decisione è stata presa affinché i due non si potessero mai più incontrare.
Questo giovane autore continua sempre a stupire per elettività e poeticità