Violare una lei – Lezione su Henry James

di Federico Spagnoli

Quando la signorina Archer rifiuta la proposta di matrimonio di Lord Warburton ha in mente soltanto una cosa: la propria indipendenza.
Dotata di una grande bellezza e di un ancor più grande intelletto, la protagonista di questo capolavoro di Henry James rappresenta il progresso di matrice statunitense, opposto al rigido spirito conservatore di un oramai obsoleta Inghilterra.
Siamo ai primi del ‘900 e la brillante signorina Archer, rimasta orfana, viene invitata dalla propria zia inglese ad accompagnarla in un viaggio per l’Europa.
Alle orecchie della nostra protagonista, la proposta risuona come la migliore delle occasioni per mostrare al mondo le proprie qualità: libera di essere come è, e forte di una consistente eredità in denaro, il personaggio della signorina Archer vanta di una dimensione alquanto inconsueta:perché   incenerisce completamente lo stereotipo che vede la bellezza esteriore di una donna inversamente proporzionale al calibro del suo intelletto.
La nostra protagonista quindi primeggia, comunque e dovunque, come un diamante che brilla di luce propria.
Più bella di tutte.
Più furba di tutti.

INTERLUDIO 1

Tutti i personaggi di Henry James, al pari delle persone nella vita reale, hanno un proprio indice di attrazione gravitazionale.
Proprio come le stelle o i pianeti, i personaggi sono in grado di far ruotare intorno a sé tutta una serie di scenari, dinamiche o, come in questo caso, altri personaggi.
Più il carattere di uno di questi è complesso, profondo e incisivo, più gravità sarà in grado di esercitare sulle circostanze e chi riempie queste ultime.
Nel nostro caso, o meglio, in quello della signorina Archer, la suddetta è paragonabile ad un buco nero.
Tutto e tutti ruotano intorno a lei. Che si ritrova difatti a rifiutare proposte di matrimonio da grandi nobili, a riscuotere lauti complimenti circa la propria bellezza ed intelligenza, ed a suscitare nel lettore l’impressione di trovarsi davanti ad un personaggio onnipotente.
Ma come un figlio deve la propria vita alla madre, come Pinocchio deve la propria a Geppetto (e a Carlo Collodi), anche la signorina Archer rimane pur sempre il frutto della mente di James.
E se agli occhi di chi ne legge le vicende, la protagonista finisce per rappresentare la perfezione fatta persona (o personaggio, nel nostro caso), agli occhi del suo creatore inizia ad apparire come una figura che le cui sfaccettature risaltano fin troppo su quelle altrui, e non solo: perché sembrano ruotare, tutto intorno alla signorina Archer, anche gli ambienti in cui si muove, in cui incide, in cui sorprende.
Ed una volta che la nostra protagonista, vedendosi offerto il dito, si avventa sul braccio, entra in gioco l’insuperabile maestria di Henry James.

INTERLUDIO 2

Come si lavora su un personaggio che è riuscito ad evadere dall’immaginario per il quale era stato concepito?
Una modalità è quella di inserire uno stravolgimento, nelle trame della narrazione, in modo da mettere in cattiva luce certe attitudini proprie della figura in questione; ma James, forte della sua tecnica, sa perfettamente che le vicende si sono sviluppate verso direzioni ben precise, e che stravolgerle, nel bel mezzo degli avvenimenti, risulterebbe nientemeno che incoerente.
Un bel romanzo strappa lacrime o sorrisi perché capace di grandi colpi di scena, ma la storia della signorina Archer deve preservare una certa linearità, perché è lei stessa la vera protagonista.
È lei a vestire i panni, come abbiamo detto, del buco nero, e tutte le stelle, i pianeti ed i satelliti che si muovono in sua funzione, non sono altro che mera scenografia.
E dunque, è sulla sua essenza, sul suo modo di essere, che bisogna operare.
Come si rimette al proprio posto una giovane donna, bellissima, scaltra come poche, e per di più notevolmente ricca?
James cinge la risposta tra le dita di un pugno di ferro.
Occorre umiliarla.
Immaginiamocela sotto i riflettori di un illustre palcoscenico, con una mano invisibile che le slaccia a poco a poco il vestito, e lei che tenta, seppur in malo modo, di coprirsi, di coprirsi ai nostri sguardi, alle nostre luci, e che in realtà non può nulla.
È una creazione di James, e come tale, a James appartiene tutto ciò che fa, ciò che dice e, naturalmente, tutto quel che si nasconde, dietro ciò che pensa.
Abbiamo utilizzato l’immagine della fanciulla in biancheria sul palcoscenico, che cerca disperatamente di coprirsi per la vergogna, ma come abbiamo detto, nel concreto, non succede assolutamente nulla.
Il punto non sono le carni della signorina Archer, le quali, a parte qualche vorticosa fantasia, non desterebbero nel lettore alcun mutamento d’opinione nei suoi riguardi.
Per umiliare una protagonista che appare agli altri personaggi come invincibile sotto ogni punto di vista, James si cala dentro la sua coscienza, violandola, vestendo i suoi panni – che dopotutto, come abbiamo detto, gli appartengono – e somministra al lettore, passo dopo passo, tutto ciò che Isabel Archer non vorrebbe mai fare sapere di sé.
Le sue insicurezze, le sue convinzioni, le sue non poche acerbità.
La signorina rimane impeccabile nella mente dei personaggi, ma tutto d’un tratto diventa nuda e fragile, agli occhi di chi legge.
Una regina, ritta sulla scacchiera, fa tutto ciò che vuole: si muove, insidia pezzi, ne mangia altri; ma quando si presenta l’artigiano che ha intagliato gli scacchi su cui regna, anche la regina non torna ad essere altro che una scheggia di legno.
La maestria di un artigiano nel padroneggiare le proprie creazioni.
La maestria di Henry James, nel violare una lei.

INTERLUDIO 3

«Non aveva alcun talento per l’espressione e troppo scarsa era la coscienza del proprio valore; aveva solo la vaga idea che la gente avesse ragione a trattarla come se fosse persona alquanto superiore. Che tale fosse o non fosse, la gente aveva ragione di ammirarla, se la pensava così; perché a lei sembrava spesso che in effetti la sua mente fosse più rapida di quella degli altri, e questo la incoraggiava a un’impazienza che poteva facilmente essere confusa con la superiorità. Si può affermare senz’altro che Isabel era probabilmente molto portata al peccato della presunzione; spesso stava a osservare con compiacenza il campo delle sue doti naturali; viveva nell’abitudine di dare per scontato, sulla base di scarni indizi, di aver sempre ragione; amava molto essere omaggiata. Nel frattempo, erano frequenti in lei quegli errori e quelle delusioni su cui un biografo interessato a tutelare la dignità del suo soggetto evita d’esser troppo preciso. I suoi pensieri erano un miscuglio di incerti percorsi che non erano mai stati corretti dal giudizio di persone autorevoli. In materia di opinioni lei si era comportata a modo suo, il che l’aveva guidata in migliaia di ridicoli zig-zag. Di tanto in tanto scopriva di aver clamorosamente sbagliato, e allora si condannava a una settimana di fervente umiltà. Dopo di che ritornava a tenere ancor più alta la testa; perché non c’era niente da fare: aveva un irrefrenabile bisogno di pensare bene di se stessa. Aveva una sua teoria secondo la quale solo con questa clausola la vita era degna di essere vissuta; che bisognasse essere tra i migliori, consci di una propria intima ed efficace organizzazione (non poteva evitare di sapere che la sua intima organizzazione lo era), e che ci si dovesse muovere in un regno di luce, di naturale saggezza, di felice istintività, di ispirazione amabilmente cronica. Non era affatto necessario nutrire un qualche dubbio su se stessi, quasi quanto nutrirlo nei riguardi del proprio migliore amico: bisognava cercare di essere il proprio migliore amico, onde dotarsi in questo modo di una compagnia adeguata. La ragazza possedeva una certa nobiltà di immaginazione che le rendeva vari ottimi servizi, ma che le giocava anche molti scherzi. Passava metà del proprio tempo a pensare alla bellezza, al coraggio e alla grandezza d’animo; aveva una ferma determinazione di guardare al mondo come a un luogo di splendore, di libera espansione, di azione irresistibile; riteneva che dovesse essere detestabile l’aver paura o il provar vergogna. Aveva una sconfinata speranza che mai avrebbe fatto nulla di sbagliato. Aveva risentito così fortemente, dopo averle scoperte, di certe sue errate sensazioni (scoperta che sempre la faceva trovare come se fosse scampata a una trappola in grado di afferrarla e stritolarla) che la possibilità di infliggere una qualche ferita ai sentimenti di un’altra persona, anche solo per imprevedibile caso, valeva a volte a farla restare col fiato sospeso. Questo la colpiva spesso come la peggior cosa che potesse capitarle. In complesso però, pensandoci bene, non aveva incertezze di sorta sulle cose che riteneva brutte e sbagliate. Non amava trovarsele di fronte, ma a guardarle bene eran tutte cose ben riconoscibili. Era brutto essere meschini, essere gelosi, essere falsi, essere crudeli; aveva visto assai poco del male del mondo, ma aveva visto donne mentire e cercare di ferirsi l’una con l’altra. Il vedere queste cose aveva stimolato il suo orgoglio; le sembrava vergognoso il non disprezzarle. Naturalmente, l’orgoglio comportava il pericolo dell’inconsistenza – il pericolo di continuare ad agitare la bandiera dopo che il fortino si era arreso -, un comportamento tanto eccessivo da tornar quasi di disonore per la bandiera stessa. Ma Isabel, che poco sapeva del genere di artiglieria cui le fanciulle sono esposte, si lusingava di pensare che tali contraddizioni mai sarebbero state colte nel suo comportamento. La sua vita sarebbe stata sempre in armonia con la più piacevole impressione da lei prodotta; sarebbe stata quello che appariva, e lei sarebbe apparsa quello che era. A volte arrivava al punto di desiderare di trovarsi lei stessa da un giorno all’altro in una situazione difficile, onde avere il piacere di mostrare un eroismo all’altezza della situazione. Con la sua scarsa esperienza, tutto sommato, i suoi esagerati ideali, la sua fiducia al tempo stesso innocente e dogmatica, il suo carattere al tempo stesso esigente e indulgente, la sua mistura di curiosità e di pignoleria, di vivacità e di indifferenza, il suo desiderio di una presenza più bella possibile, la sua determinazione nel voler vedere, cercare, sapere, la combinazione in lei di una sensibilità fiammeggiante, delicata e discontinua, con un volonteroso e personalissimo adattamento alle circostanze; l’avrebbero resa facile vittima di una serrata disamina critica se non fosse destinata a risvegliare nel lettore un moto più affettuoso e di più benigna aspettativa».

(N.d.A.) Il brano a cui si fa riferimento appartiene al romanzo di Henry James “Ritratto di signora” (Portrait of a lady) pubblicato nel 1981.

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