Parole per accogliere la molteplicità

Le parole non sono mai solo parole. Definiscono il modo in cui percepiamo gli altri e la realtà che ci circonda. Creano mondi, modi di pensare e di agire. Non dovrebbe stupirci che per i greci il termine “logos” non fosse solo parola ma anche ragione, concetto. L’aspetto verbale non era mai distinto da quello razionale.
Ecco perché il linguaggio è tanto importante, così come lo sono le “Parole per accogliere” protagoniste dell’incontro in programma giovedì 27 febbraio alle 20.30 alla biblioteca Trisi di Lugo.

L’incontro

La serata rientra nel cartellone del Festival dei linguaggi, organizzato da Università Aperta di Imola (QUI lo abbiamo presentato e puoi trovare il programma). L’appuntamento lughese è curato da Arcigay Ravenna insieme alla biblioteca Trisi e sarà incentrato su linguaggio di genere e linguaggio inclusivo, e su come le parole possono alimentare o combattere sessismo e omolesbobitransfobia. Interverranno Natascia Maesi, presidente dell’Arcigay nazionale, e Ciro Di Maio, presidente Arcigay Ravenna e coordinatore del Centro Antidiscriminazioni LGBTI+.

Natascia Maesi e Ciro Di Maio

Il potere delle parole

«Le parole creano senso e immaginario, sono mezzi potentissimi e vanno usate responsabilmente». Lo sa bene Natascia Maesi, presidente dell’Arcigay nazionale, che negli anni, insieme alla comunità che rappresenta, ha fatto delle parole uno strumento «per cominciare a esistere, oltre che a resistere».

Il linguaggio può costruire, ma anche distruggere. «I discorsi che vengono pronunciati su di noi, spesso anche dalle più alte cariche dello Stato, contribuiscono ad alimentare la violenza, la diffidenza, l’ostilità nei nostri confronti». Vengono utilizzate espressioni come “contro natura” o “immorale”, vengono tirati in ballo i “valori” e le “tradizioni”. «Diventiamo dei mostri che fanno paura, creano scompiglio e allarme sociale».

Ma questo non è l’unico modo per colpire, fare del male, discriminare. Secondo Ciro Di Maio, presidente Arcigay Ravenna, «la scelta di non utilizzare alcuni termini è altrettanto pericolosa. Penso a chi ignora o si rifiuta di usare il femminile di molte professioni. Rende invisibile una fetta di persone, i loro bisogni, le loro necessità. Lo stesso accade quando si negano determinati orientamenti o identità».

«Per questo – riprende Maesi – il linguaggio ampio e rispettoso deve prevedere ogni persona. Anche quelle che non si riconoscono nei due generi uomo-donna. Durante l’incontro parleremo dell’importanza di usare formule neutre, delle parole senza marca di genere, di come può essere utilizzato lo schwa (che nell’alfabeto fonetico internazionale viene rappresentato per convenzione con il simbolo “ə” e viene usato per evitare di marcare il genere, ndr). Faremo un affondo sull’importanza di utilizzare le parole giuste nei confronti di ogni identità e orientamento. Dobbiamo imparare a sintonizzarci con il modo in cui queste persone si rivolgono a se stesse e utilizzare, per esempio, il nome che scelgono». Spesso anche un’espressione o un termine inappropriato «possono essere micro aggressioni».

Il linguaggio modifica il pensiero

Il linguaggio non solo riflette il pensiero, ma in qualche modo lo influenza e lo modifica. Per questo la scelta dei termini è importante. Cambia la percezione che abbiamo delle cose e cambia il modo in cui poi agiamo. Ecco perché non è uguale parlare di utero in affitto anziché di gestazione per altri. Non è uguale indicare nei documenti le voci “padre” e “madre” anziché “genitori”. Non è la stessa cosa riferirsi a una donna chiamandola sindaco anziché sindaca. E può fare la differenza rivolgersi a un pubblico dicendo “tutti e tutte”, o utilizzare un asterisco in un documento sostituendo “tutti” con “tutt*”.
«La lingua italiana è una tra le più complesse e articolate – sottolinea Di Maio -. Ci permette di rivolgerci alle persone che abbiamo davanti anche senza utilizzare per forza un genere. Ci sono tanti escamotage, si possono fare giri di parole per comprendere ogni orientamento e identità». Iniziare a parlare in un modo nuovo «è il segnale che si può andare nella direzione dell’accoglienza invece che in quella del rifiuto».

La paura del cambiamento

Eppure sono molte le persone dubbiose di fronte all’uso di nuovi termini o nuove formule, riluttanti davanti a uno schwa o un asterisco. Secondo Maesi «c’è molta ignoranza. Non è una colpa, ma perseverare nelle proprie convinzioni errate è una responsabilità. Abbiamo il dovere di fare un lavoro di decostruzione, analisi e approfondimento, colmando le nostre lacune e superando convinzioni errate». Ma non si tratta solo di questo. «Modificare il linguaggio è una vera e propria rivoluzione e spesso spaventa. Dietro la scelta di cambiare le parole che usiamo, c’è la scelta di modificare il modo in cui percepiamo la realtà. Il timore di un asterisco riflette la paura che venga messo in discussione un ordine sociale basato sul dualismo, sulla dicotomia, sulle categorie che conosciamo. È una paura atavica nei confronti del cambiamento».
Se è vero che le cose esistono nel momento in cui noi le articoliamo, «pronunciare l’impronunciabile significa ammettere che ci sono persone non binarie, persone trans, persone che vivono oltre i generi, che se ne fregano dei generi, come le persone queer». E a chi afferma che non è necessario, «che “siamo sempre sopravvissuti lo stesso”, anche senza certi termini – Di Maio risponde che – no, non tutti sono sopravvissuti. Ci vorrebbe un grande lavoro culturale, di informazione e sensibilizzazione».

I giovani ci provano, anzi ci riescono

Di Maio è quotidianamente a contatto con loro, le giovani generazioni, quelle che «il problema non se lo pongono. Loro hanno già iniziato a utilizzare un altro linguaggio, senza fossilizzarsi su discussioni sterili (“dico avvocata o avvocatessa?”), senza paura di sbagliare. Si buttano, provano, sperimentano. È la via giusta. Non sono tutti così, ma molti trovano, nell’occuparsi del prossimo e della collettività, un mezzo per stare meglio anche loro. Chi frequenta l’università chiede che la modulistica e la comunicazione istituzionali vengano riviste, per esempio. Purtroppo ci vuole tempo per questi cambiamenti. In qualche comunicazione già si trova l’utilizzo degli asterischi, il problema è riuscire ad avere formule di questo tipo in documenti che hanno valore legale».

Ma il cambiamento parte sempre dal basso e noi, come suggerisce Maesi, possiamo incidere provando ogni giorno a usare «prima di tutto un linguaggio rispettoso, non violento e non discriminatore. Poi allenandoci a dire ministra, magistrata, avvocata. Utilizzando parafrasi per non escludere nessuna persona. Esercitandoci a dire “Buongiorno a tuttə”. Perché la lingua la fa chi la parla».

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