Quella di Lidia Poët, la prima donna a entrare nell’Ordine degli avvocati in Italia (correva l’anno 1920), è una storia che merita di essere conosciuta e approfondita. Per la capacità di tratteggiare un’epoca, per il ruolo che ebbe nella storia dell’emancipazione femminile italiana, come esempio di determinazione nell’affrontare le battaglie civili.
A raccontare la storia e il valore di Lidia Poët, che nella serie televisiva è interpretata da Matilda De Angelis (in foto sopra), è un libro di Chiara Viale, biellese, anche lei avvocata. Il volume, “Lidia e le altre – Pari opportunità ieri e oggi: l’eredità di Lidia Poët”, è uscito nel 2022 per le Edizioni Guerini con la presentazione della ex presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia, allora ministra della Giustizia del governo Draghi, e la prefazione del giornalista Pierluigi Battista.
Appassionata di letteratura, Viale si occupa da anni di promozione delle pari opportunità e di valorizzazione delle differenze. Sabato 1 marzo sarà a Imola ospite del Festival dei linguaggi organizzato da Università Aperta. L’appuntamento è alle 16 alla Salannunziata, in via Fratelli Bandiera 17.
A presentare l’incontro e a dialogare con Chiara Viale sarà lo scrittore imolese Antonio Castronuovo, che abbiamo intervistato.

A leggere alcuni stralci della sentenza con cui la Corte di Cassazione nel 1884 escludeva Lidia Poët dall’avvocatura ci si imbatte in una serie quasi comica di stereotipi di genere. Si legge infatti che le donne non possono essere avvocate perché «sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare».
La convinzione era che una donna che “concionasse” in un’aula di tribunale avrebbe sminuito il valore della categoria degli avvocati.
Era inopportuno che la toga venisse indossata su abiti ritenuti «strani e bizzarri», e si ipotizzava che, trovandosi di fronte delle donne e magari di bell’aspetto, i giudici sarebbero stati indotti a favorire una «avvocata leggiadra”. L’esclusione veniva giustificata dalla naturale «riservatezza» del sesso femminile, dalla sua indole, dalla fisica cagionevolezza e in generale dalla deficienza in quanto a «forze intellettuali e morali», quali la fermezza, la severità, la costanza che avrebbero impedito alle donne di occuparsi di «affari pubblici». Insomma, c’è tutto il campionario dei pregiudizi tipici di una società patriarcale.
Certo oggi queste affermazioni ci fanno sorridere. Però, senza per questo volerle giustificare, allora storicamente ci poteva stare. Non dimentichiamo che Poët nasce prima dell’Unità d’Italia, in un mondo totalmente diverso dal nostro e in cui la professione giuridica non era praticata dalle donne. Lei è la prima che tenta di fare quella scalata, di entrare in un ambiente che per ragioni storiche e culturali non poteva che rifiutarla. Infatti lo fa, e lo fa in maniera violenta. Ma ciò che è veramente interessante della storia di Lidia è che di fronte ai rifiuti e alle umiliazioni non si dà per vinta, scopriamo un personaggio che continua a combattere tutta la vita per riuscire nel proprio obiettivo e così facendo apre le porte a tutte le donne.
E alla fine, anche se dovrà aspettare l’età di 65 anni, riuscirà ad avere ragione, ad essere ammessa all’avvocatura.
Il fulcro della sua storia è proprio questo: di fronte ad una negazione, che è sì verso di lei ma che è anche verso l’intero mondo femminile, lei non si ferma, lavora con le unghie per tutta la vita per riuscire ad entrare in un mondo da cui come donna era esclusa. E così facendo finisce per diventare un vessillo storico.
Si impegna per l’emancipazione della donna, per ottenere il suffragio femminile, per il miglioramento delle condizioni nelle carceri… se fosse vissuta un secolo e mezzo dopo sarebbe stata una radicale impegnata nelle battaglie civili, interessata non tanto a un colore politico ma alle conquiste sociali.
Pur non essendo abilitata ad esercitare in un’aula di tribunale nel frattempo, riesce comunque a svolgere la sua professione, l’avvocatura, lavorando nello studio con il fratello. Questo ci fa riflettere anche sul fatto che anche il riconoscimento giuridico di una certa situazione di fatto non sia una cosa di poco conto.
Assolutamente sì. Il problema è storico ed è legato anche e in maniera specifica alla storia del nostro Paese. Siamo una nazione giovane, uno Stato unitario nato 150 anni fa, in cui le professioni notabilari, si pensi alla professione legale, a quelle mediche, anche alla professione giornalistica, hanno avuto e conservano un ruolo molto rilevante, e in cui gli ordini professionali richiedono un’appartenenza e una disciplina precisa. Prima di lei quegli ordini erano solo maschili e non ci si poneva nemmeno la questione dell’accesso delle donne.
La storia di Lidia Poët è una prima impronta diversa in una storia del tutto omogenea, omologata e appiattita sul maschile. Per questo è interessante, perché è un preannuncio di un discorso che emergerà con veemenza solo molto dopo, dovremo infatti attendere la seconda guerra mondiale e gli anni ‘60 e 70’ prima che dilaghi. La sua esperienza è l’inizio di una storia di conquiste di genere. Abbiamo a che fare con quella che in filosofia viene definita la vicenda di una mente postuma, propria ai pensatori che riescono a pensare cose che matureranno 50 anni dopo.
E oggi cosa ci insegna Lidia Poët?
Ci insegna che la Storia non è mai ferma, è su una linea che va avanti, talvolta sale e talvolta scende, ma che comunque cambia. E perché questo avvenga, affinché cambi, c’è bisogno di persone, di idee, anche di piccole figure eroiche, singoli che riescono a condurre delle battaglie mettendoci la faccia in maniera molto forte. La Storia va avanti solo se ci sono degli uomini e delle donne che spingono questo “carretto” da dietro.
complimenti alla nostra avvocata…era ora