Nel 2024 gli Stati Uniti sono diventati, sostituendosi alla Germania, il primo mercato di destinazione dell’export dell’Emilia-Romagna, con un valore che supera oramai i 10,5 miliardi di euro. Quello a stelle e strisce è il primo mercato per numero di filiali estere controllate da multinazionali emiliano-romagnole (oltre 400) e il primo per gli investimenti esteri nella nostra regione.
Nell’ultimo biennio gli Stati Uniti sono stati il primo mercato di riferimento per le vendite bolognesi all’estero. Come registrato dalla Camera di Commercio, Bologna esporta quasi il 25% dell’export regionale (e circa il 4% dell’export nazionale) negli Stati Uniti. Si tratta del 13% di quanto complessivamente venduto all’estero dalle imprese bolognesi.
È quindi con comprensibile apprensione che si vive l’entrata in vigore dei “dazi reciproci” tra gli Stati Uniti e il resto del mondo industrializzato.
Come ragiona il presidente della delegazione imolese di Confindustria Emilia, Marco Gasparri, «le nostre imprese sono preoccupate e spaventate. Ma credo che le imprese americane non lo siano meno. E che una guerra commerciale, “dazi contro dazi”, non convenga a nessuno; certamente non agli americani».
Dalle aziende tra Imola e Bologna partono macchine per il packaging farmaceutico, della plastica, della gomma. Oltre il 75% del fatturato estero viene da mezzi di trasporto e macchinari.
«Il nostro – prosegue il rappresentante di Confindustria – è un territorio che ha sempre avuto relazioni preferenziali con gli Usa per tutto ciò che possiede un elevato livello tecnologico, un altissimo contenuto di innovazione. D’altronde sulla creatività tecnologica abbiamo sempre basato il nostro fare impresa. Per queste ragioni si tratta di un territorio che è sempre stato posizionato molto bene nel canale delle esportazioni con gli Stati Uniti: dall’altra parte ci sono infatti clienti che hanno bisogno di ricevere il meglio della tecnologia».
Come materie, dagli Usa arriva nelle nostre imprese soprattutto componentistica di medio e alto livello, acciai e materiali speciali, e soprattutto tantissimi componenti per la meccatronica, con contenuti sia a livello hardware sia software. Arrivano e qui vengono applicati alle tecnologie che poi vengono rivendute in America come macchine finite.
Gasparri, questa dinamica commerciale come si ripercuoterà sul mercato, alla luce dei dazi imposti sulle merci?
Il primo impatto dei dazi è di carattere inflattivo ai danni dell’utilizzatore finale, che sono sempre loro, gli americani. Le cose che comprano costeranno di più a chi le compra. Poi bisogna dire che in Italia abbiamo un vantaggio rispetto ad altri Paesi, come la Germania: abbiamo infatti un portafoglio più diversificato, esportiamo moda, food, agritech, meccatronica, macchine automatiche… L’Italia per gli Stati Uniti è un fornitore globale.
E questo rappresenta un punto di forza.
In che senso?
Nel senso che il made in Italy o comunque tutto ciò che è riferibile all’Italia è così presente nella dieta, nel vestire, nella loro quotidianità che l’americano non ci rinuncia così facilmente. Nel loro “paniere Istat” la pasta italiana è un punto fermo. Tantissime aziende italiane sono presenti negli Stati Uniti con una rappresentanza, si tratti della distribuzione di prodotti provenienti dall’Italia o della produzione su marchio e tecnologia italiana. Un altro effetto dei dazi annunciati è che molte nostre aziende stanno valutando di rafforzare la loro presenza là.
Al momento com’è l’atmosfera tra le imprese esportatrici?
In generale c’è preoccupazione, ma la situazione è diversificata. Le imprese più in bilico sono soprattutto quelle che non hanno canali stabili negli Stati Uniti. Per intenderci: il classico imprenditore europeo o italiano che “prende su la sua valigetta” e va a vendere; ecco, quelli sono molto preoccupati. Un po’ meno chi invece può contare su organizzazioni stabili. C’è un diverso livello di preoccupazione in base sia al livello di organizzazione che hai in loco, sia in base al prodotto che vendi.
Ad esempio?
La Clai di turno che vende salami e prosciutti negli Stati Uniti è più tutelata: gli americani alle cose buone non rinunciano, che siano i salumi o i vini italiani e francesi. Ma non comprano solo il barolo o lo champagne, comprano anche prodotti che vengono distribuiti da aziende americane che marginano sulla distribuzione. Se col dazio viene a mancare la competitività del prodotto potrebbe calare l’interesse di chi fa intermediazione e quindi scemare la distribuzione. Insomma, è tutto molto complicato e incerto. E c’è un aspetto che in Europa consideriamo poco…
Quale?
L’effetto interno dei dazi. L’aumento dei prezzi sulle importazioni e sulle esportazioni avrà per forza anche un effetto sui prezzi del mercato interno americano. Se crescono i prezzi dei materiali che arrivano in Europa e gli Stati Uniti continuano a comprare le macchine finite o i componenti che produciamo con quei materiali, perché ci sono aziende americane che non possono fare a meno della componentistica europea, per l’acquirente americano il prezzo cresce due volte. Ribadisco: dazio contro dazio porta male a tutti, soprattutto al consumatore finale. E il consumatore finale, di fronte a questi prezzi impazziti, continuerà a pensare che questo presidente-imprenditore può fare finta di niente? Non lo credo.
La Apple produce in tutto il mondo, soprattutto nel sudest asiatico, e ha un suo mercato importante in Europa. Siamo sicuri che vogliano far costare l’Iphone il 25% in più? Diventerebbe dura per quelle compagnie che hanno aiutato Trump ad essere eletto.
E ancora: la tecnologia farmaceutica è prevalentemente europea e gli americani sono grandissimi consumatori di farmaci; dove da noi compri una scatolina con 20 pasticche là trovi dei flaconi da 250! E come abbiamo visto durante il Covid, le macchine per la farmaceutica sono tutte italiane o comunque europee…
Insomma, ci sono elementi che garantiscono, almeno in parte, le nostre imprese dagli effetti delle politiche commerciali annunciate dal presidente Trump? Che si tratti più di una guerra di nervi e di breve periodo che di misure concrete e strutturali?
La sensazione è quella. Ma gli effetti sono già molto reali. E questo anche perché la politica estera e commerciale americana si combina con quello che sta succedendo in Europa, dove abbiamo una guerra che comunque ci preclude delle possibili alternative commerciali. L’Europa sta cercando alternative, come hanno fatto i cinesi in Africa e nelle altre aree rimaste scoperte dalla penetrazione americana, ma in questo scenario di conflitti non è semplice. Noi esportiamo tecnologia durevole, macchinari che durano nel tempo, che hanno quindi bisogno di investimenti in un orizzonte di medio-lungo periodo. Più che una guerra di dazi credo che l’intenzione sia riequilibrare la bilancia tra import ed export. Se così fosse, potrebbe diventare un’opportunità per l’Europa: farci aumentare le importazioni dagli Stati Uniti, Paese che possiede delle risorse naturali importantissime.
A livello locale esistono delle contromosse? Le imprese come si possono attrezzare?
Molte aziende del territorio sono già presenti negli Stati Uniti o hanno una qualche forma di organizzazione a cui fare riferimento. Questo può aiutare molto a trovare delle soluzioni, soprattutto per quelle imprese che lavorano nell’assemblaggio e nella produzione di macchinari. Per l’agritech invece è più difficile, e l’Emilia-Romagna ha un Pil importantissimo legato alle esportazioni agroalimentari.
L’idea che le nostre aziende si sono fatte è che in questa partita molto dipenderà dalla capacità negoziale che avremo, da quanto le nostre istituzioni presenti in quel Paese saranno capaci di far percepire come il cittadino americano abbia molto da perdere da un rapporto conflittuale e basato sui dazi. La Camera di commercio italo-americana sta lavorando proprio in tal senso.
Personalmente non trovo nulla di scandaloso se un premier va a fare l’interesse del proprio Paese cercando un canale privilegiato. I cinesi lo fanno da una vita.
Ripeto che per gli Stati Uniti siamo un venditore globale, abbiamo una gamma di prodotti che passa le tremila referenze. E quindi le relazioni istituzionali e le organizzazioni stabili del commercio possono fare la differenza. Un pezzo importante dell’opinione pubblica americana è “filo-italiana” e non si fa influenzare solo dall’economia. È anche questione di cultura e di costume, e da questo punto di vista siamo certamente avvantaggiati. Quello che dobbiamo fare è attrezzarci per amplificare questo sentiment, essere un po’ più “cinesi” e bravi a fare in modo che quello che sta accadendo non cambi le abitudini dell’americano medio. Perché agli spaghetti e al parmigiano non rinuncia così facilmente.