Perché non scriviamo e non scriveremo di suicidi

Di suicidi noi di Quo.d non parliamo e non parleremo. O meglio, di suicidi scriveremo quando servirà a qualcosa, a segnalare un fenomeno sociale non un caso singolo, quando raccontarlo potrà contribuire a far crescere i nostri lettori e la nostra comunità.

Così come avviene per uno scontro stradale, che può servire a segnalare la pericolosità di un incrocio o a convincere l’amministrazione pubblica a migliorare la manutenzione. Così come abbiamo fatto di recente cercando di capire come è stato possibile far sparire dei denari pubblici dalla società Area Blu, affinché, aumentando il livello di attenzione sui meccanismi di controllo, questo, speriamo, non possa più ripetersi.
Di suicidi parleremo quando potrà servire a cambiare in meglio il mondo in cui viviamo. In tutti gli altri casi, quando non potrà migliorare le cose, no, non daremo la notizia di suicidi, si tratti di persone comuni o che a scegliere di togliersi la vita sia chi ha un ruolo o una notorietà pubblica.

Non lo faremo nel momento in cui non sia ancora stato fugato il dubbio che possa trattarsi di un suicidio, quando “è giallo sul cadavere ritrovato…” o quando “gli inquirenti stanno cercando di capire se si sia trattato di suicidio”. Non lo faremo quando il suicidio è avvenuto in un luogo di pubblico accesso, quando “la gente lo sa e vuole sapere cosa è successo”.

E non parleremo di suicidi per tre motivi: uno di natura esistenziale, filosofico, un secondo motivo legato al possibile impatto sociale dei suicidi, il rischio di emulazione, e il terzo che deriva dal nostro modo di essere giornalisti. Motivazioni che, assieme, siamo convinti superino in importanza il diritto di cronaca e il diritto ad essere informati.

La prima ragione per cui non diamo e non daremo notizie di suicidi è per evitare l’effetto di emulazione, di cui parla l’Organizzazione mondiale della sanità e gli studi o gli esperti più autorevoli e di cui è stato riscontrato l’impatto sull’aumento di casi in occasione di suicidi eccellenti, come avvenuto nel 2014 dopo la morte dell’attore Robin Williams.

La seconda ragione per cui non racconteremo casi di suicidi è il rispetto delle scelte di ciascuno quando queste scelte riguardano il solo individuo, la sua vita, la sua coscienza, le proprie convinzioni o i drammi interiori che sta vivendo. Siamo convinti che ciò che conduce a scegliere la propria morte sia un mistero e come tale meriti di essere trattato. Una complessità che la curiosità e i giudizi di chi non sa, non conosce, non può comprendere riducono inevitabilmente a semplificazioni (“si è ammazzato perché…”) che rappresentano una ingiuria e una stigmatizzazione nei confronti di chi ha scelto di morire.

Una terza ragione, infine, è legata alla professione che svolgiamo, il giornalismo, e al modo costruttivo in cui, nel nostro piccolo, abbiamo deciso e cerchiamo di svolgerlo. Per noi “la notizia” è quella che arricchisce la comunità e le sue persone, che mostra gli errori e le cose che non funzionano affinché possano funzionare meglio. Un giornalismo che cerca sì di essere interessante e di raccontare quello che accade attorno a noi, senza tacere fatti “scomodi” e senza fare sconti a chi ha la responsabilità di prendere le decisioni. Ma che lo fa nella consapevolezza che il giornalismo possa e debba contribuire a renderci migliori.

© Riproduzione riservata

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Anche su desktop, la tua esperienza sempre a portata di click!