Livrea (da “Ferino”)

di Federico Spagnoli

Quando, ormai più di tre anni fa, scrissi Livrea, avevo in mente di costruire una sequela di immagini che esprimessero staticità, indecisione e tentennamento; che potessero bloccare le gambe del ragazzo ritto sulla scogliera, dell’uomo fermo davanti alla porta di casa, della ragazza immobile nella sala d’attesa della clinica e della donna a metà strada tra il marciapiede e il sedile del taxi. Pensavo che, attraverso quella che è a tutti gli effetti una “alchimia linguistica”, sarei riuscito a scuotere qualcosa, o forse qualcuno: che sarei riuscito a rimettere in sesto gli ingranaggi della mia vita che avevano smesso di funzionare o, ancora peggio, che si erano messi a ruotare nella direzione opposta.
Ognuno di noi guida un macchinario di cui mai riuscirà a svelare la reale complessità, che mai potrà capire del tutto e che, come di tanto in tanto qualcuno finisce per accorgersi, arriva quasi sempre ad essere lui a guidare noi. Al suo controllo difficilmente si possono salvare le nostre azioni, che ci appaiono meditate e consapevoli, illudendoci del fatto che sia davvero la nostra lucidità ad averle congegnate, e non un qualche istinto remoto, che dal suo obliato sepolcro – dentro noi – ci guida come un burattinaio, facendo leva sulla nostra memoria, sui nostri sensi e sui nostri ormoni: sulla nostra percezione. Quanto di ciò che viviamo non è altro che una forma di persuasione. E quanta, di questa persuasione, finiamo per rivolgere verso noi stessi. Pensavo spesso, ai tempi, all’immagine di un uomo diviso in tre parti: la sinistra apparteneva al boia, la destra al condannato, e la parte centrale era del giudice, che dava l’ordine al carnefice di giustiziare l’imputato e, facendolo, ordinava a sé stesso di ammazzare un’altra parte di sé. Quante delle armi che puntiamo verso i cuori altrui sono rivolte solo ed esclusivamente verso noi stessi. Quanto del male che destiniamo agli altri in realtà ci si ritorce contro. Mi domandavo, perso nella mia alchimia, se qualcuno avesse già capito che il prossimo non siamo altro che noi, semplicemente in una forma diversa. Lo avevo capito io, ai tempi di Livrea? O cercavo soltanto di dipingere un ulteriore tassello del mio grande quadro bicolore, ignaro del fatto che con tutta la probabilità non ero io ad impugnare il pennello.
Chissà se il mio macchinario – il mio dispositivo – è riuscito nel suo intento.
Chissà se, attraverso Livrea, è riuscito a rimettermi in moto.
A lenire la ruggine.
Dentro di me.


Livrea (da “Ferino”)

cresci
oltre questa porta è buio pesto
e tu stai a guardare
le dita strette contro i palmi
che imprigionano parole
e io, che mi rivedo in questo posto
e non so più invecchiare 
ho le dita strette sui grilletti
di queste sterili pistole

cresci
oltre questa porta si apre il mare
e tu non sai nuotare
le braccia strette dietro la schiena
ad alleviare la tensione
e io, che un tempo avevo la mia nave
non so più guidare
le braccia strette lungo i fianchi
in attesa di quel timone

e di quel timore
che un amante nel letto
e una pistola alla tempia
possano dirmi che in fondo 
anche il cuore ha una mente
perché il tempo qui avanza
e i giorni son rughe
perché il mondo oggi è un campo
e noi timide spighe

menti
oltre quella porta rischi di cadere
ti devi accontentare
occhi chiusi e cuori spenti
così diversi dalle fiabe
e sai, ci vorrebbe la tua calma
ma non ci vuoi aiutare
nervi saldi e gesti freddi
di chi ha paura di morire 

menti
oltre quella porta è nascosta
la causa del tremare
di questi fili spinati
indossati dalle persone
e sai, ci vorrebbe la tua rabbia
ma non ci vuoi aiutare
a riempire queste trincee
di vecchi silenzi e parole nuove

e di quel timore
che un amante nel letto
e una pistola alla tempia
possano dirci che in fondo
anche il cuore ha una mente
e i saluti son deboli
i congedi più ruvidi 
e anche tutti questi incubi
oggi lasciano i lividi

© Riproduzione riservata

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