«Se mi conosci vieni a mangiare con me»

Cosa ci suggerisce questa frase dell’ottavo episodio dell’Ulisse di James Joyce: «Se mi conosci vieni a mangiare con me»?
Allude, forse, ad una segreta e profonda corrispondenza fra il cibo e l’identità di una persona, al punto tale che “ciò che si mangia” rimanda in qualche modo a “ciò che si è”?
Il breve saggio di Andrea Pagani, Ulysses di Joyce: l’epopea del corpo, del cibo e della pace, indaga un triplice aspetto del capolavoro dello scrittore dublinese: le caratteristiche del cibo di cui si nutre il protagonista, Leopold Bloom; i giudizi che egli esprime sulla cucina e sul corpo, in particolare negli episodi quinto, sesto e ottavo; e i risvolti che questi passaggi testuali rivestono per definire la sua condizione esistenziale, il suo carattere, la sua visione del mondo.
Ma tutto questo, a ben vedere, non riguarda solo la storia di un personaggio, l’uomo comune, l’everyman, problematico, esitante, complesso e molto moderno Leopold Bloom. Ma riguarda tutti noi, e tocca aspetti delicati e nevralgici del nostro tempo, il nostro rapporto con il prossimo, con la politica e la pace.
In preparazione del Bloomsday (il festival internazionale di Joyce che si terrà a Trieste il 16 giugno) il libretto verrà presentato venerdì 6 giugno da Paola Congiustì alla Libreria Mondadori di Imola. Nel frattempo, eccone una qualificata recensione.

di Nicola De Vita

Il momento in cui ci si innamora non è molto diverso dal momento in cui si capisce di essere pronti per iniziare a leggere un libro: in entrambi i casi si accende infatti una fiamma nel profondo del cuore, si dipana quindi un fuoco il cui carattere mistico non può certo essere spiegato grazie al solo uso della ragione.
Certo, nel momento in cui ci si innamora si può tentare di raccontare a sé stessi e ai nostri amici dei “perché” e non diversamente, quando si comincia a leggere un libro che magari abbiamo comprato da tanto tempo possiamo fare lo stesso ma il grande mistero che avvolge l’attimo in cui si cede a una persona o a un libro in modo esclusivo è appunto un grande mistero: un interessante quanto affascinante istante che nessun “altro” al di fuori del proprio “io” può veramente comprendere.
Tentare così di spiegare ciò che per me è stato Ulisse non è perciò solo un preambolo necessario al seguente contributo ma altresì un modesto tentativo di chiarire prima di tutto un fatto: Ulisse non è un romanzo “esaurito” ma un romanzo la cui complessità continua a suscitare sempre nuovi interrogativi.

Molte sono dunque le riflessioni che il professor Andrea Pagani, già autore di numerose pubblicazioni dedicate a James Joyce, ci sottopone nel suo ultimo saggio Ulisse di Joyce: l’epopea del corpo, del cibo e della pace, (Editrice La Mandragora), dove in effetti ci aiuta a comprendere alcune tematiche affrontate dallo scrittore irlandese grazie a un approfondimento non poco attuale: un approfondimento che ha ad oggetto il cibo.
Come giustamente viene ricordato in apertura del breve saggio, nulla in Ulysses è lasciato al caso. Di conseguenza, non è da ritenersi inappropriata la decisione di servirsi di una frase, («Know me come eat with me», «Se mi conosci vieni a mangiare con me»), per tentare di aprire la serratura di una porta solo in apparenza ostile.

È certamente vero che nel capitolo in oggetto, (Lestrigoni), non accade nulla di particolare (che poi quali sono i fatti particolari che ci consentono di dire: «qui accade qualcosa di importante»?), ma sul piano dell’elaborazione mentale Leopold Bloom è attivissimo. Il protagonista, infatti, non solo rielabora nell’ora di pranzo altri accadimenti della giornata in chiave alimentare ma dà luogo ad un monologo interiore costante, vivace che alterna comicità e disgusto, attrazione e repulsione proprio nei confronti del cibo e di chi lo consuma.
La simmetria tra corpo e mente che definisce in buona sostanza l’episodio è funzionale non già a spiegare il rapporto di Leopold Bloom con l’alimentazione ma con ciò che ha luogo intorno a sé prima, durante e dopo l’ora del pranzo (dopotutto chi, tra le 13 e le 14, non si è mai visto protagonista di un processo di elaborazione psico-somatica che avesse ad oggetto il cibo in modo esclusivo proprio come il nostro protagonista?).

Come noi, come tutti noi, Leopold Bloom è non a caso, prima di tutto, un uomo che cerca: un uomo esitante, problematico ed estraneo ad un presente nel quale tuttavia si conforma.
In altre parole, cent’anni ormai dopo quelle pagine, Leopold Bloom si conferma essere un uomo che si contraddice, un uomo che ha fame e che nei confronti del cibo vive emozioni contrastanti: la sua stessa mitezza, il suo movimento incerto (apparentemente fragile) che cos’è, in effetti, se non il naturale contraltare ad uno spazio pervaso in maniera quasi bulimica dal culto delle certezze e del cinismo?
La sua sensibilità mite e remissiva, addirittura buona, probabilmente anche sognatrice, resiste perciò in un universo che al contrario celebra il pragmatismo, l’arrivismo, la rivalità e resiste anche al tempo e si conferma essere, malgrado la distanza dal mito, proprio come un mito: eterno.

In conclusione, in un tempo nel quale non solo occorre impegnarsi per aiutare i giovani a riscoprire l’importanza della lettura ma anche impegnarsi per affrontare sfide apparentemente irrisolvibili come quelle della guerra e della crisi economica, Ulysses può in qualche maniera suggerire degli interessanti spunti di riflessione.
Il commercio alimentare globale, dopotutto, determina ciò che mangiamo, come si produce ciò che mangiamo e chi ne trae profitto; di conseguenza, il nostro ruolo di (post)moderni “Ulisse” tra gli scaffali del supermercato non può di certo essere delegato a terzi ma deve trovare dinamicità presto.
Citando ancora una volta James Joyce, come possiamo allora descrivere il mito a nostra volta, sub specie temporis nostri? Non è forse in questa sfida che trova dimora il senso della letteratura e della sfida che a suo tempo propose (e ci propone, appunto), il controverso autore di Ulisse anche oggi?
“(A noi) l’ardua sentenza”

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