Di padre in figlio, ma il passaggio di consegne in azienda deve essere preparato per tempo

Ogni anno in Italia su 218mila aziende con un fatturato che supera il milione di euro, sono 3.600 quelle in cui i titolari passano il testimone. Decidono, quindi, o sono posti nelle condizioni, di lasciare il timone a chi subentrerà alla guida dell’azienda, spesso il figlio.

La transizione è un passaggio difficile e complesso e che di conseguenza sarebbe saggio preparare per tempo. Perché il fallimento, come indica una ricerca dell’Università Bocconi pubblicata nel 2021 ma ancora suggestiva, è dietro l’angolo.

L’età dell’imprenditore ha poi un’influenza significativa sugli indici economici dell’impresa. Infatti, lo dicono le statistiche, se l’imprenditore ha più di 60-70 anni, le performance aziendali peggiorano sensibilmente.

Quindi, se non si vuole correre il rischio di agire troppo tardi, non è affatto sano procrastinare eccessivamente il passaggio. Non solo per il futuro dell’azienda, ma anche per quello del Paese, dato che l’82% delle imprese italiane sopra il milione di euro è fatto di aziende famigliari.

Il dato è sorprendente: la percentuale di riuscita del passaggio generazionale si ferma infatti al 30%, vale a dire che meno di un terzo delle aziende completa la transizione alla seconda generazione. Una percentuale di successo che scende al 13% se si guarda alla terza generazione, e si riduce al solo 4% per le imprese alla quarta generazione.

Marco Moscatti, lei è presidente del Gruppo giovani imprenditori di Confindustria Emilia dal 28 giugno scorso. Imprenditore di seconda generazione, ha 35 anni ed è Ceo dal 2020 di TEC Eurolab Srl, azienda con sede a Campogalliano, in provincia di Modena che si occupa di prove di laboratorio e controlli non distruttivi sui materiali. Azienda di famiglia in cui è entrato quindi giovanissimo, almeno secondo gli standard anagrafici dell’impresa italiana. Non è il suo caso, ma i dati sul passaggio generazionale pongono un problema.

Si tratta per le imprese di un momento particolarmente critico che quindi meriterebbe una maggiore attenzione. È infatti una fase cruciale per la vita dell’azienda. Ciò è vero in particolare per le piccole imprese, dove c’è meno managerialità e di conseguenza la macchina per funzionare bene non può prescindere da chi siede alla guida. Ma è un problema più ampio, del sistema-Paese, perché quando il passaggio tra generazioni non funziona, o l’azienda fallisce oppure viene ceduta, spesso a gruppi esteri. E questo non può che impoverire il nostro tessuto imprenditoriale. È quindi una questione che definirei strategica.

«Il passaggio generazionale è qualcosa che si manifesta in un istante, ma che conclude un processo». Forse è questa la ragione di percentuali di fallimento così elevate?

Affinché il passaggio abbia successo sono convinto occorra che entrambe le generazioni diano il proprio contributo. Sia chi subentra, sia chi deve lasciare spazio alla nuova generazione. I giovani devono avere la volontà, la capacità e l’umiltà di mettersi in gioco. Studiare, fare la gavetta in azienda per comprendere come funzionano i processi aziendali e quelli decisionali. Perché non è affatto scontato che chi subentra abbia le capacità, la lungimiranza e ci metta l’impegno di chi li ha preceduti. Così come non deve essere un assoluto che il giovane voglia entrare nell’azienda di famiglia, può benissimo avere aspirazioni o una vocazione diversa. E se la disponibilità a raccogliere il testimone non c’è…

Un interesse e una vocazione che vanno costruiti, non vengono da sé.

Se si vuole veramente preparare la continuità aziendale è importante che in famiglia se ne parli. Coinvolgere i figli fin dagli anni delle scuole medie, delle superiori, affinché possano vedere l’impresa come una colonna portante, un punto di riferimento, come qualcosa di centrale per la famiglia. Lo dico anche  per la mia esperienza personale. Io ho sempre vissuto l’impresa… sono stato allattato da mia madre dentro i locali dell’azienda.

Perché è nel racconto, nel confronto, nell’esempio, nella condivisione che si trasferisce la passione. Se invece l’azienda di famiglia viene gestita in maniera asettica, senza parlarne mai in casa, allora è difficile che nasca l’identificazione e per il figlio diventa una cosa come un’altra. L’obiettivo è lavorare alla continuità generazionale? Allora è importante che i figli vengano coinvolti il prima possibile, anche solo parlando dell’impresa. Ma senza fare pressioni, altrimenti il rischio è ottenere l’effetto opposto. 

Però, come diceva lei, le parti in causa sono due. E chi invece deve prepararsi a passare il testimone, quale percorso è bene che segua?

Io sono stato capace di realizzare quello che volevo e che dovevo, ma mio padre, a soli 63 anni, non 80!, ha avuto l’audacia di fare un passaggio di consegne così importante nel 2020, proprio durante l’emergenza Covid, quindi in un momento molto delicato. Io di anni ne avevo 31… non so se sarò capace di fare la stessa cosa…

Rinunciare alla propria “creatura” rischia di non essere affatto facile. Soprattutto se l’amministratore dell’azienda è anche il fondatore.

Capisco che è faticoso, ma bisogna accettare che il figlio farà le cose in maniera diversa da come le fa il padre. I talenti sono diversi, lo stile di leadership sarà diverso. “Si è sempre fatto così” rischia di rappresentare un grosso ostacolo. Bisogna quindi sintonizzarsi con l’idea che l’azienda cambierà, perché se cambia chi la guida, cambierà anche l’azienda. Accade per la Apple! E a maggior ragione è vero anche per le piccole e medie imprese.

Lei dice che ci vuole più coinvolgimento nelle dinamiche aziendali. Un tema che non riguarda solamente il passaggio di consegne alla guida dell’azienda ma, come ci dimostra la Great Resignation, il fenomeno delle dimissioni di massa, si allarga sempre più anche ai dipendenti.

Assolutamente sì. Molti giovani non accettano più di fare da comparsa. È importante che ciascuno nel proprio ambito e nel proprio ruolo possa essere protagonista, che sia ascoltato, si senta integrato in un team, che comprenda che sta contribuendo alla mission aziendale. E dobbiamo capire come questo possa avere delle ricadute positive più ampie. Io tengo in prima persona i colloqui per le assunzioni e cerco di fare in modo che da parte delle persone che lavorano con me ci sia identificazione con gli obiettivi aziendali. È diventato essenziale per i collaboratori, figuriamoci per il figlio dell’imprenditore che deve subentrare! Se l’impresa resta l’impresa del padre, il passaggio non può funzionare.

Per lei, nella sua azienda, com’è andata?

Durante la tesi di laurea ho iniziato a seguire un progetto aziendale molto importante: stavamo valutando di avviare un reparto di tomografia industriale e nel 2013 si trattava di una tecnica estremamente innovativa che per la nostra azienda avrebbe rappresentato l’investimento più importante mai fatto. Non c’era qualcuno in azienda che seguisse il progetto e mio padre ha insistito perché ad occuparmene fossi io. 

Ho fatto l’indagine di mercato, ho incontrato i principali clienti per capire se per loro questa tecnologia sarebbe stata interessante, ho sentito i fornitori così da selezionare la macchina più indicata per questo tipo di analisi, e alla fine abbiamo fatto l’investimento.

Mi sono laureato il 13 dicembre e a Santo Stefano, lo ricordo bene, abbiamo installato la nuova macchina. Così ho iniziato a seguire quella attività, aspetti tecnici e aspetti commerciali. Per me è stato un modo sì, per entrare nell’impresa di famiglia, ma portando qualcosa di nuovo. Ho contribuito portando un nuovo ramo aziendale, un business che non c’era. 

La cosa è riuscita particolarmente bene, tanto che è diventato il reparto aziendale a più alto fatturato e a più alta marginalità. Quella tecnologia ha incontrato un grande successo sul mercato e ha portato vantaggi e clienti anche alle altre attività e nel giro di 3-4 anni abbiamo raddoppiato sia il fatturato aziendale sia il numero dei collaboratori. Negli anni il mio ruolo si è espanso e da responsabile di quella singola area di business man mano sono diventato responsabile di tutti i centri di ricavo, di produzione e infine nel 2020, a 31 anni, sono stato nominato amministratore delegato.

In piena emergenza Covid…

Già. Dalla sera alla mattina abbiamo perso un cliente che da solo fatturava 4 milioni di euro, il 35% del nostro fatturato complessivo. Operava in ambito aeronautico e gli aerei avevano smesso di volare. A quel punto abbiamo revisionato tutta la nostra organizzazione commerciale. Il 2020 siamo riusciti a chiuderlo senza andare in perdita ed abbiamo iniziato la ripresa. Il primo trimestre di quest’anno è stato il migliore di sempre. Sono stati anni complessi ma adesso stiamo crescendo e siamo molto contenti.

Ad incidere sul passaggio generazionale sono dinamiche familiari e percorsi personali, certo. Ma quali condizioni strutturali, quale ambiente potrebbe favorire la transizione aziendale? Ne va, dice lei, del futuro del sistema-Paese.

Di certo diffondere maggiormente la cultura di impresa, smettere di demonizzare l’impresa così come invece avviene nel nostro Paese, sarebbe già un passo importante. Purtroppo non c’è la percezione che ogni oggetto che utilizziamo, ogni servizio che ci viene erogato esce da un’impresa. Meno ignoranza e meno ostilità credo favorirebbero l’avvicinamento dei giovani e la nascita di nuove imprese e di nuove idee. Di cui abbiamo tutti un gran bisogno.

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